In un post pubblicato nel forum Reddit rivolto ai Neet, un ragazzo scrive: “Sto pensando di vivere allo stato brado, semplicemente trotterellando in giro per il mondo con pochi soldi”. Questo forum, una comunità di 44mila persone provenienti da tutto il mondo, condivide consigli e discute le sfide dell’essere un Neet, acronimo di Not in education, employment or training (non impegnato nell’istruzione, nell’occupazione o nella formazione).

In Italia, i Neet under 30 erano, secondo il Censis, 1.405.000 nel 2023, il 28,3% in meno rispetto al 2019, prima del Covid. E il costo derivante dal loro mancato inserimento nel lavoro si quantificava, in quell’anno, in 15,7 miliardi di euro. Louise Murphy, economista presso il think-tank Resolution Foundation, afferma che la salute mentale è uno dei fattori trainanti dell’aumento dei numeri di Neet: in 20 anni, la percentuale di giovani che hanno segnalato un disturbo come l’ansia o il disturbo bipolare è aumentata da un quarto a un terzo. E il “nostro” Censis conferma l’analisi con dati preoccupanti: il 58,1% delle persone tra 18 e 34 anni si sente fragile, il 56,5% si sente solo e il 69,1% ha bisogno di sentirsi rassicurato.

Certo, ci sono anche 200 mila giovani che nel terzo trimestre del 2024 sono risultati titolari e soci di impresa. E poi ci sono quelli che se ne vanno: in dieci anni la cosiddetta fuga di cervelli è diventata un fenomeno sempre più allarmante. Se nel 2013 era poco meno di un giovane su tre a essere laureato tra quelli che emigravano, nel 2022 siamo saliti a uno su due. Ma di cosa si tratta realmente? La definizione di brain drain offerta dall’Enciclopedia Britannica è apparentemente chiara: “L’abbandono di un paese a favore di un altro da parte di professionisti o persone con un alto livello di istruzione generalmente in seguito all’offerta di condizioni migliori di paga o di vita”.

Tuttavia, non è affatto sufficiente a descrivere un fenomeno. Infatti, un rapporto dell’Ocse sui movimenti di personale altamente qualificato ha messo in luce, all’interno di questi movimenti, tre elementi sostanzialmente nuovi: il primo è il brain exchange – lo scambio di cervelli – in cui lo scambio è sostanzialmente alla pari. Poi c’è la circolazione dei cervelli, o brain circulation, per cui ci si sposta all’estero per completare gli studi e perfezionarsi.

Infine, l’Ocse evidenzia il (relativamente) nuovo fenomeno del brain waste, lo spreco di cervelli. In questo caso, l’emigrazione non è fisica ma occupazionale: è la perdita delle competenze e vantaggi derivata dallo spostamento di personale altamente qualificato verso impieghi che non richiedono l’applicazione delle cognizioni per cui sono stati formati. In altre parole, un dottore di ricerca in Fisica che viene assunto in un ufficio marketing ha forse risolto il suo problema personale di lavoro, ma non sta applicando le competenze apprese a spese del sistema di istruzione nazionale.

In “Much more than a market” – la relazione sul rafforzamento del mercato interno della Ue di Enrico Letta – la fuga di cervelli e/o il loro spreco è definita dall’ex primo ministro italiano, il “lato oscuro” della libertà di movimento dell’Unione: attiene alla capacità di innovazione di un paese ed è la misura di quanto stiamo smarrendo la capacità stessa di pensare e progettare il futuro. In ottobre, il Portogallo – circa 361.000 persone di età compresa tra 15 e 35 anni hanno lasciato il paese tra il 2008 e il 2023 – ha deciso di prendere in mano la situazione: il governo guidato da Luís Montenegro ha presentato una proposta di bilancio per trasformare il paese in un paradiso fiscale per i giovani adulti, offrendo un decennio di agevolazioni fiscali a coloro che iniziano la loro carriera.  Ma bastano incentivi finanziari basati sull’età per arrestare la fuga di cervelli? No: la gamma di opportunità di lavoro ben retribuite e le reti professionali a Bruxelles, Berlino e Parigi, ad esempio, sono una grande attrazione.

E l’Italia? Qui i giovani – il tasso di disoccupazione giovanile è al 15,4%, ancora al di sopra della media europea, di 14,1% – rimangono la grande incognita del paese. Mentre sarebbero necessari programmi mirati a farli restare. Per contrastare il fenomeno Neet, l’Italia ha avuto a disposizione circa 2,7 miliardi di euro per il periodo 2014-2020 (ne ha spesi 1,6), ma secondo il report di Cgil e Actionaid,Neet: giovani in pausa”, Garanzia Giovani ha contribuito a reintrodurre nel mercato del lavoro solo il 26% della popolazione Neet del nostro paese, avendo avuto come misura principe il tirocinio: poi, scontiamo il non funzionamento dei centri per l’impiego sul territorio nazionale e la mancata sinergia con le agenzie private.

Ma c’è un altro elemento critico: la quota di giovani adulti in possesso di un titolo di studio terziario – i corsi di ciclo breve professionalizzanti erogati dagli Istituti Tecnologici Superiori – è pari al 30,6%, lontana dall’obiettivo europeo (45%) e decisamente inferiore alla media Ue (43,1%). Perché così pochi? La ragione è semplice: non ce ne sono abbastanza. Dunque, prima di cercare le ragioni per cui molti giovani “si mettono in pausa”, analizziamo quali e quante sono le opportunità concrete che il paese offre loro.

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Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro in Fondazione Luigi Einaudi