Bocciatura completa
Stefano Esposito bersaglio da colpire, la lezione di diritto ai pm di Torino: tutte le anomalie di un processo senza senso
L’ex senatore Pd era implicato nell’inchiesta Bigliettopoli. La Consulta aveva detto che per ascoltare le sue conversazioni i pm avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione al Senato. Dopo sette anni si scopre che non c’è neanche ragione di fare il processo
Stefano Esposito è innocente, lo ha stabilito il decreto di archiviazione del gip di Roma. E i magistrati di Torino che lo hanno inseguito e indagato per sette anni, lo sono altrettanto? Una parola potrebbe arrivare dalla commissione disciplinare del Csm, che si riunirà il prossimo 9 dicembre per giudicare i comportamenti del pm Gianfranco Colace e della gip Lucia Minutella, i due protagonisti di un’inchiesta giudiziaria che è stata rasa al suolo come Cartagine nelle intenzioni di Catone il Censore nel 157 a.c.
Esposito bersaglio da colpire
Numerose sono state le “anomalie”, se vogliamo usare un termine delicato per indicare qualcosa che non avrebbe dovuto mai succedere, un’inchiesta che non si sarebbe neppure dovuta cominciare, e un bersaglio da colpire, come sancito dalla Corte Costituzionale. Intervenuta, così come la cassazione, a raddrizzare le gambe storte delle indagini. Stefano Esposito era un senatore del Pd quando tutto è cominciato. Era anche un amico carissimo di Claudio Muttoni, imprenditore del settore musicale, che venne intercettato in un’inchiesta che, secondo un sistema consolidato di quelli che il ministro Nordio chiama “fascicoli clonati” e “fascicoli virtuali”, era partita con il timbro dell’antimafia. Cioè quello che consente tempi e modalità di indagine, intercettazioni comprese, molto più ampi e discrezionali.
Gogna assicurata, Esposito intercettato 500 volte da parlamentare
Poi la parte delle aggravanti mafiose cade in corso d’opera, come accaduto in questo caso, ma nel frattempo la gogna è assicurata, insieme all’elastico che consente di dilatare all’infinito le indagini. Claudio Muttoni è stato intercettato oltre 23.000 volte, cinquecento delle quali con il senatore Esposito, dopo le prime delle quali, era chiaro che l’imprenditore era a colloquio con un parlamentare. L’articolo 68 della Costituzione, con quel poco che ne è rimasto dopo la sciagurata modifica parlamentare del post-tangentopoli, sul punto è chiarissimo: non si può captare la voce di un deputato o senatore, neanche nelle inchieste di mafia, se non dopo aver ottenuto l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Il pm Colace ha continuato imperterrito, fino a usare una parte di quelle intercettazioni per chiedere il rinvio a giudizio del senatore Stefano Esposito per corruzione, turbativa d’asta e traffico di influenze. Quanto alla gip Colella, si era impegnata a discuterne durante una seduta, in seguito “dimenticandosene” per procedere lestamente a mandare l’imputato a processo.
Bocciatura completa
Sarà merito del Senato, e in particolare del Presidente di allora, il magistrato che era stato a capo della Direzione nazionale antimafia Pietro Grasso se si arriverà a sollevare un conflitto di attribuzione che porterà la Consulta a emettere un provvedimento esemplare che avrebbe dovuto colorare di rossore i magistrati di Torino. Perché i giudici avevano stabilito che quelle intercettazioni erano “… in realtà univocamente preordinate ad accedere alla sfera di comunicazione del parlamentare, senza aver mai richiesto alcuna autorizzazione al Senato della Repubblica”. Bocciatura completa. Che si era sommata alla decisione di un altro alto organo della magistratura, la Corte di Cassazione, che nel frattempo aveva rilevato un’altra “anomalia” del processo, quella sulla violazione del principio del giudice naturale e della sede territoriale, inviando gli atti alla procura di Roma. Ed è qui, negli uffici della capitale, che si sono trovati i famosi “giudici di Berlino” del mugnaio di Brecht.
Lezione di diritto ai pm torinesi
I quali hanno assegnato il terzo ceffone, con annessa lezione di diritto, ai colleghi torinesi, entrando nel merito delle accuse e annullandole definitivamente con il decreto di archiviazione del gip Angelo Giannetti su richiesta dei pm Rosalia Affinito e Gennaro Varone. “Le prove -è la conclusione- …non rivelano mai in alcun caso, la loro concreta, ragionevole idoneità a dimostrare l’esistenza di un patto illecito per l’esercizio di funzioni pubbliche…”. Che cosa concludiamo, Stefano Esposito, dopo 2.589 giorni di tormenti, dovuti non a motivi casuali? “Dico che più che inseguire riforme semi-epocali come la separazione delle carriere, l’unica vera riforma da fare immediatamente sarebbe quella del principio che chi sbaglia paga. Possibile che ci sia in Italia un soggetto che non paga mai per errori o peggio?”. Già, e che dire del ministro Nordio che, benché sollecitato, non ha mai mandato gli ispettori a Torino?
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