Il caso
Strage di via Palestro, tenetevi le cantilene dell’antimafia militante
Ci sono diversi modi di commemorare le stragi, che in Italia purtroppo fino ai primi anni novanta del secolo scorso sono state tante. A Milano ogni anno si ricorda soprattutto quella di piazza Fontana del 1969: strage fascista, strage di Stato, strage casuale e non voluta? Ma ogni anno quel giorno i milanesi, comunque la pensino, sono tutti lì, perché la ferita è stata enorme, negli anni del movimento degli studenti e dell’autunno caldo delle fabbriche, che ancora esistevano.
Ma c’è un’altra ferita che brucia ancora, ogni anno, la sera del 27 luglio alle 23,15: la bomba del 1993 davanti al Pac di via Palestro, il Padiglione di arte contemporanea, luogo di giovani e di intellettuali, più che circo frequentato da tanti. Luogo stravagante per una strage di mafia, in effetti. Pure, così hanno stabilito le sentenze, così ha testimoniato una serie di “pentiti”, collegando quella Uno bianca imbottita di esplosivo con quella scoppiata a Firenze e altre a Roma, tutte negli stessi giorni. Le cinque vittime di Milano sicuramente non erano obiettivi della mafia. L’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari, che per primo vide quel filo di fumo bianco che usciva dall’auto.
I vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, che erano subito accorsi sul luogo. E Moussafir Driss, un immigrato marocchino che dormiva su una panchina dall’altra parte della strada e fu investito da un blocco di lamiera. Ogni anno a Milano sono soprattutto i vigili del fuoco a ricordare con la presenza in massa di autopompe i loro colleghi uccisi. Anche questa volta, e sono ormai ventinove anni che lo fanno. Suonano le sirene in via Palestro, poi a mezzanotte il Comune invita tutti a un concerto al cimitero monumentale. Commovente, quello di mercoledì sera, con la note struggenti del Requiem di Mozart.
Si sentiva la necessità della nota stonata della consueta filastrocca dell’antimafia militante? No, che non la si sentiva. Tanto che, poche ore prima del concerto e delle sirene dei vigili del fuoco, non più di venti persone erano lì ad ascoltare, sotto la voce “Il Pac non dimentica”, il curatore del padiglione Diego Sileo che intervistava un giovane giornalista siciliano, Marco Bova, collaboratore del Fatto quotidiano, che ha scritto un anno fa un libro su Matteo Messina Denaro, considerato il grande latitante di mafia, che Bova considera un “latitante di Stato”. E fa già un po’ sorridere –lo diciamo senza paternalismo-, che un ragazzo siciliano nato nel 1989, vent’anni dopo la strage di piazza Fontana, sia venuto proprio a Milano a usare quell’espressione un po’ torva e sospettosa dei ragazzi che negli anni settanta riempivano le piazze gridando “la strage è di Stato”.
Ma fosse solo questo. Perché quei venti che avevano sfidato il caldo della città deserta (ma al concerto erano ben di più) per dare il segnale di un ricordo commosso per quelle vittime, forse meritavano qualcosa di più serio della rifrittura mal recitata di tutti i luoghi comuni dell’antimafia militante. E perdente nei processi, dalla farsa “trattativa” fino alle bufale di Scarantino. Si capisce dalle prime parole del giornalista, dove si vuole arrivare. Ah, il fascino dei “mandanti”! Quelli che stanno sempre nel backstage. Chi ci sarà stato dietro le Brigate Rosse? E dietro la mafia? Quando ci si inerpica per questi viottoli, le brutte figure non si fermano più. Prendiamone una che fa veramente ridere. Partiamo da una constatazione seria: perché la mafia avrebbe dovuto far esplodere una bomba proprio davanti a un luogo d’arte sofisticato e non da tutti conosciuto come il Pac? Forse gli uomini di Cosa Nostra si sono sbagliati.
Potrebbero essersi confusi con il palazzo della stampa, che però è in piazza Cavour, cioè ad almeno 3-400 metri di distanza. Oppure, forse volevano colpire la casa di Marcello Dell’Utri, che però era ancora più distante, al di là del parco, in via Marina. Assurdità, ovviamente, ma intanto il nome è stato buttato lì, a futura memoria. Verrà ripreso alla fine, insieme a quello di Silvio Berlusconi e dell’inevitabile boss mafioso Giuseppe Graviano. In definitiva queste bombe del 1993 a che cosa sarebbero servite nella strategia di Cosa Nostra, se non a “destabilizzare per creare il passaggio tra la prima e la seconda repubblica”?
Il finale della manifestazione è veramente sconsolato. Ma non si sorride più, nel sentir dire che “purtroppo” l’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri mandanti delle stragi “non potrà andare avanti come destino giudiziario senza riscontri inossidabili e quindi si rischia l’archiviazione”. Chiaro? Se a un’ipotesi dell’accusa non si trovano “riscontri inossidabili”, non significa che forse l’indagato con quei fatti non c’entra niente, ma che ci sono colpevoli che la fanno franca. Chissà se ci hanno creduto quei venti poveretti di una sera accaldata di fine luglio.
© Riproduzione riservata