Ci può essere una via di mezzo tra il “pagare le tasse è bello” di certa sinistra radical chic e l’obiettivo di un taglio delle tasse, sempre annunciato e mai centrato, che è una classica bandiera dei governi di centro-destra? La storia del nostro Paese degli ultimi vent’anni dimostra che c’è stata una sola esperienza di governo che abbia concluso il suo mandato con una pressione fiscale significativamente più bassa di quella ereditata dal governo precedente. È stato il caso dei governi Renzi-Gentiloni (2014-2018).

Come è noto, la pressione fiscale, o tax rate, è il rapporto percentuale tra l’ammontare complessivo di imposte e tasse e il PIL. Il governo Renzi ereditò dal 2013 un tax rate record del 43,4% e lo fece scendere al 42,2% nel 2016 riducendolo di 1,2 punti percentuali (senza contare gli 80 euro, stimabili in un ulteriore calo indiretto della pressione fiscale dello 0,6%). Il governo Gentiloni, in continuità con l’esecutivo precedente e dando applicazione alla Legge Finanziaria del 2016, ridusse ulteriormente il tax rate di 0,4 punti nel 2017, portandolo al 41,8%. E il 2018 vide una ulteriore limatura di un decimale. Nel complesso tra il 2014 e il 2018 la pressione fiscale scese di 1,6 punti percentuali (-2,2% considerando anche gli 80 euro).

Occorre dire, per obiettività, che i governi Renzi e Gentiloni operarono in un contesto macroeconomico relativamente favorevole e poterono tagliare imposte, come quella sulla prima casa, che erano state precedentemente introdotte durante la difficile fase di emergenza dell’austerità. Ma il percorso di riduzione del tax rate nei cinque anni considerati fu costante e lineare, grazie a un mix di politiche economiche efficaci. E, fatto importante, avvenne senza un aggravio dei conti pubblici, con il rapporto debito/PIL che scese dal 135,4% del 2014 al 134,4% del 2018. Allo stesso tempo, il potere d’acquisto delle famiglie italiane, cioè il reddito disponibile in termini reali, aumentò nel quinquennio di 53 miliardi rispetto al 2013.

In precedenza, durante i governi Berlusconi I e II (2001-2006) il tax rate era inizialmente diminuito, sia pure a fasi alterne. Non durò a lungo: nel 2006 tornò sostanzialmente agli stessi livelli del 2001, anzi si collocò di due decimali più sopra rispetto a cinque anni prima, cioè al 40,1%. Durante il successivo governo Prodi, nel 2007, il tax rate salì di 1,3 punti percentuali, al 41,4%, ma perlomeno fu centrato l’importante obiettivo di ridurre quasi del 3% il rapporto debito/PIL.

Seguirono anni difficili, in cui la congiuntura non fece sconti: si sentì il peso della crisi economica internazionale dovuta ai mutui subprime del 2009 e la crisi dei debiti sovrani del 2011. Nel corso del governo Berlusconi IV (2008-2011) il tax rate oscillò sempre senza prendere una direzione precisa e a fine periodo si attestò al 41,3%, sostanzialmente allo stesso livello a cui l’aveva lasciato il governo Prodi. Infine, con i governi Monti (2012) e Letta (2013), la pressione fiscale raggiunse nuovi livelli massimi, al 43,3% e 43,4%, rispettivamente.

Negli anni più recenti, dopo la ricordata parentesi positiva di Renzi e Gentiloni, il tax rate risalì di 6 decimali al 42,3% nel 2019 con il governo Conte I, già prima del Covid-19, per poi sfondare nuovi massimi nel 2020-2022 con i governi Conte II, Draghi e Meloni, sotto la pressione della crisi pandemica e dei suoi strascichi.

Pagare le tasse e le imposte è un dovere perché esse servono a finanziare lo stato sociale e le infrastrutture di cui una nazione abbisogna. Questo era il vero significato della celebre frase pronunciata dal compianto economista e ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa nel 2007: “Le tasse sono una cosa bellissima”. Anche se per gli ultras della sinistra poi quella frase è stata sempre un leit-motiv da richiamare costantemente per evocare “punizioni” dei ricchi e il ricorrente desiderio di “patrimoniali”.

All’opposto, come da sperimentata tradizione del centro-destra, anche l’attuale maggioranza di governo ha vinto le elezioni del settembre scorso impostando gran parte della propria campagna elettorale sulla promessa di un significativo taglio delle tasse. Che per ora non c’è stato e che probabilmente non ci sarà.

Perché? Perché la situazione economica del mondo, dell’Europa e dell’Italia oggi non è facile e perché i conti pubblici italiani attuali non lo permettono. Lo stesso DEF lo fa capire chiaramente quando prefigura il ritorno a breve termine ad un avanzo primario dello Stato necessario per ridurre il nostro rapporto debito/PIL. Ma un bilancio primario positivo si può raggiungere soltanto tagliando le spese o aumentando le tasse o facendo le due cose insieme. E, naturalmente, combattendo l’evasione fiscale, che però non sembra essere proprio una priorità dell’attuale governo.

Marco Fortis

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