Il coraggio non le manca: è la prima volta che una premier di destra-destra scende nell’arena del sindacato più a sinistra. Giorgia Meloni non si è fatta troppi scrupoli nell’affrontare a testa alta i fischi e le proteste – a tratti anche forti – della platea riunita per la terza giornata del congresso Cgil a Rimini. Certo, nel merito non fa un passo indietro. Ma la dialettica è aperta, il confronto salvo. Ed è anche questo uno dei successi di Maurizio Landini, il riconfermando segretario che ha ospitato prima le opposizioni – riunite ineditamente insieme – e ieri ha dato il microfono alla presidente del Consiglio e leader di Fdi. «Le ho chiesto di venire qui non per galateo ma per rappresentarle l’urgenza di ottenere risposte», ha messo in chiaro il padrone di casa.

E con Landini garante del confronto, Meloni ha accettato di sottolineare, tra salve di fischi e una Bella ciao intonatagli in coro, qualche impegno da sottoscrivere. Con tutte le telecamere schierate in assetto da grande evento, Meloni ha preso posto sul palco guardando la platea con fare teatrale. Con un distacco studiato e un sorriso beffardo. E ha iniziato difendendo prima di tutto la riforma del fisco varata proprio il giorno prima dal suo governo, senza lesinare gli attacchi al reddito di cittadinanza e senza nulla concedere al salario minimo. Nell’arena dell’assemblea nazionale della Cgil chiede di fare il suo ingresso dal cancello centrale, rispondendo così ai retroscena che la descrivevano timorosa, indecisa fino all’ultimo se andare a Rimini a prendere i fischi che il giorno prima erano andati a Calenda. Le proteste riguardano un’ala della Fiom, gli irriducibili – da cui lo stesso Landini proviene – e che ieri hanno contestato l’opportunità di invitare l’ultima erede missina, come qui qualcuno l’epiteta ancora. E vanno così in scena i banchi con i peluche di Peppa Pig poggiati sopra in segno di protesta (il riferimento è alla colorita dichiarazione di Federico Mollicone sui ‘cartoni animati devianti’) e portando le fascette bianche al braccio di delegate e delegati nel ricordo delle vittime di Cutro.

Lei tira dritto. E parte con un discorso che aveva scritto ma che in parte improvvisa, senza nascondere i punti su cui la distanza con il sindacato è maggiore. L’ultimo presidente del Consiglio ad aver preso la parola in un congresso della Cgil era stato Romano Prodi nel 1996. 27 anni e ben 15 governi fa. E soprattutto, con un posizionamento politico ben diverso. Meloni fa Meloni: punge e sfida, ma prova anche a tendere la mano. Lo fa ricordando Marco Biagi -il giuslavorista bolognese ucciso per mano delle Br a pochi passi dal portone di casa-, condannando con forza l’assalto alla sede nazionale della Cgil di militanti di estrema destra, citando il segretario Landini e dicendosi più volte d’accordo con lui. Con decisione, però, a lui rinvia le accuse degli ultimi giorni: «Io non considero finto il nostro confronto, altrimenti non avrei nessun motivo di perderci tempo». Ai contestatori risponde a tono: ricorda di non temere i fischi – «mi fischiano da quando ho 16 anni, sono Cavaliere al merito su questo…»- e li punge su uno slogan che molti credevano geniale -’pensati sgradita’-: «Non sapevo che Chiara Ferragni fosse una metalmeccanica».

In sala cala il silenzio, Meloni snocciola a uno a uno i temi al centro dell’agenda sociale: le distanze appaiono e sono siderali, ma lei ricorda di essere il presidente di tutti, invita al gioco di squadra, all’approccio “sincero”. «Rivendicate senza sconti le vostre istanze nei confronti del governo – dice alla platea ‘rossa’ strappando un timido applauso al termine del suo intervento –troveranno sempre un ascolto serio e privo di pregiudizi, perché questo è l’impegno che mi sono presa con gli italiani e che intendo portare avanti». Poi tocca tutti i temi più a cuore del sindacato. Senza fare sconti. «I salari sono bloccati da 30 anni – ricorda – dato scioccante perché l’Italia ha salari più bassi di prima del ‘90 quando non c’erano ancora i telefonini. In Germania e Francia sono saliti anche del 30%. Signif ca che le soluzioni individuate sinora non sono andate bene e che bisogna immaginare una strada nuova che è quella di puntare tutto sulla crescita economica, perché sono le aziende a creare ricchezza; allo Stato tocca il dovere di creare le regole, la povertà non si abolisce con i decreti», dice ricordando il via libera al reddito di cittadinanza e l’esultanza dei grillini al balcone di Palazzo Chigi.

Ed è proprio alla misura bandiera del M5S che riserva l’attacco più duro, definendone “doverosa” l’abolizione per chi è «in grado di lavorare: non credo debba essere mantenuto dallo Stato». Per lei, il reddito di cittadinanza «ed è giusto dirlo proprio qui, ha fallito gli obiettivi per cui era nato perché a monte c’è un errore: mettere nello stesso calderone chi poteva lavorare e chi non poteva lavorare, mettendo insieme politiche sociali e politiche attive del lavoro». Anche sul salario minimo, terreno su cui le opposizioni potrebbero costruire un fronte comune per sfi dare il governo, Meloni marca la distanza: «Non è la strada giusta, favorirebbe i soliti», taglia corto, indicando piuttosto la ricetta dell’estensione della contrattazione collettiva.

«Possiamo lavorare insieme a un sistema di ammortizzatori sociali universali, sia il lavoratore dipendente, autonomo o atipico: non costruire una cittadella di garantiti impermeabile a chi rimane fuori». I toni si ammorbidiscono. Meloni che prima aveva citato l’assassinio di Marco Biagi, ora vira sugli anarchici. «Credevamo che il tempo della contrapposizione ideologica feroce fosse alle nostre spalle – dice infatti la premier – e invece in questi mesi, purtroppo, mi pare che siano sempre più frequenti segnali di ritorno alla violenza politica, con l’inaccettabile attacco degli esponenti di estrema destra alla Cgil» e le azioni «dei movimenti anarchici che si rifanno alle Br». Per questo, «credo sia necessario che tutte le forze politiche, sindacati e corpi intermedi combattano insieme contro questa deriva, senza eccezioni e tentennamenti». Ed è qui che Meloni strappa l’unico, timido applauso. Lasciando il Palacongressi, dopo un faccia a faccia con Landini durato circa mezz’ora, viene omaggiata da un mazzo di rose bianche. Non sono da parte del sindacato, no. Gliele porge una delegazione di Fdi venuta a omaggiarla e diventano anch’esse una buona metafora di questo momento complesso, per la premier, tra rose e spine.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.