L’attento lettore si domanderà come mai continui il tormentone del terzo mandato. Ma sarà la sua allenata cognizione degli usi della politica a fornirgli pronta risposta: si negozia, come in un bazar mediorientale, l’onorevole uscita. Ma un po’ anche si prende tempo, perché in politica non si sa mai: almeno fino a quando non vengono fissate le date dei comizi elettorali, qualcuno spera sempre l’impossibile. Anche se sul terzo mandato è piazzata la pietra tombale, con la benedizione finale dei due maggiori partiti di maggioranza e opposizione e la convinzione piena della presidente del Consiglio. Gli argomenti adoperati dai “colpiti” dalla scure dei due mandati non sono del tutto campati per aria: a porgerli sono sostenitori sbagliati, perché direttamente coinvolti. Ma non si può negare che chi viene eletto sindaco o presidente di Regione direttamente dal corpo elettorale andrebbe, in teoria, fatto santo subito.

Il divieto scolpito in Costituzionale

Va notato che i “cooptati” del Parlamento non hanno alcun limite di mandato se non quello, non giuridico certamente, della durata della benevolenza del capo nei loro confronti. Per questo l’appecoronamento alle pendici delle ginocchia del leader è una clausola di stile tatuata nella pelle del beneficiato e osservata bipartisan. Alla faccia del divieto di mandato imperativo scolpito in Costituzione, che poi vuol dire che ogni eletto risponde solo al popolo e alla sua coscienza. Per questo il “peso” del Parlamento è diventato leggero come una piuma. Ma le leggi nazionali si fanno lì, e dunque non ci possono essere limiti di nuova cooptazione per chi riceve il mandato per grazia del capo, mentre per chi affronta il confronto col popolo sì.

Un ruolo ridimensionato

Poi va pure detto che anche il sindaco e il presidente della Regione si muovono in un contesto assai diverso da quello dei loro colleghi della cosiddetta Prima Repubblica, quando esistevano ancora i partiti politici ed erano sconosciuti i cesarismi dei giorni nostri. L’investitura elettorale di tipo plebiscitario e il drastico ridimensionamento di ruolo delle assemblee elettive, a fronte del rafforzamento di quelli del monocrate al potere, ne hanno fatto qualcosa di diverso dal primus inter pares nelle istituzioni democratiche locali. E nel vuoto della politica sono stati costruiti degli attrattori di potere più simili all’amministratore delegato di una S.p.a. piuttosto che il centro d’imputazione politica di un’istituzione rappresentativa.

Il sindaco

Che dire, infatti, del sindaco? La sua Giunta è fatta da chi – per legge – non può avere un ruolo di rappresentanza in seno all’assemblea municipale, caratterizzandosi come un mero collaboratore del primo cittadino, rimovibile senza battere ciglio, mentre le assemblee comunali restano degli organi di mera ratifica, garantiti dalle maggioranze di governo. Figurarsi poi del capo della Giunta regionale, titolare di potestà simili nella confezione dell’esecutivo ma – soprattutto – deus ex machina di una mappa articolata di centri di potere nel labirintico intrico di società partecipate o direttamente afferenti al pubblico locale. Da qui allo status di cacicco è un passo, anche perché la diserzione delle urne – ormai ridotta spesso ad assai meno del 50% negli enti locali – valorizza il voto organizzato clienteralmente.

Dall’assurdo al ragionevole

Il limite dei due mandati in passato, prima delle riforme che portarono alle investiture dirette, poteva apparire un’assurda limitazione; oggi invece acquista un senso diverso e una sua ragione. Perché, per come stanno le cose nella realtà, non appare sbagliato il limite ai capi del governo locale. Anzi: bisognerebbe, questo sì, applicare qualcosa del genere anche al livello parlamentare. O cambiare la legge elettorale, rimettendo nelle mani del popolo la scelta degli eletti. Resti scritto per memoria, con un po’ di scetticismo sul gradimento da parte dei parlamentari che dovrebbero tradurre il principio sacrosanto in legge.