C’è un punto del pacchetto Cartabia che può contare su un percorso tutto sommato tranquillo in Parlamento e questo è quello che rende più stringente il divieto delle cosiddette porte girevoli. La regola è chiara: chi si candida o viene eletto non potrà più rientrare nella giurisdizione attiva. Praticamente appenderà al chiodo la toga e andrà, a occhio e croce, a sbrigare pratiche amministrative al ministero della Giustizia. Sia chiaro mica un dito in un occhio: ci sono toghe che implorano di finire in un qualunque ministero per occuparsi – a stipendio intatto se non aumentato – di pratiche amministrative.

Pur di sfuggire al tormento delle aule e alla fatica del lavoro giudiziario, ci sono file di aspiranti al cosiddetto “fuori ruolo” che farebbero di tutto per farsi distaccare nei più sperduti uffici dell’amministrazione pubblica. Quasi quasi conviene candidarsi, pur senza alcuna speranza, e così tirarsi fuori dall’impiccio delle sentenze o dei turni di procura della Repubblica. Naturalmente è una piccola provocazione, ma solo per capire che non è mica che la politica sta con il “gatto a nove code” in mano a frustare le toghe; male che vada per qualcuno finisce meglio.
Poi ci sono le questioni ideologiche, le ricadute ordinamentali, l’articolo 51 della Costituzione che prevede che chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto a conservare il proprio posto di lavoro, per carità tutta roba meritevole della massima considerazione, ma insomma la garanzia dello stipendio invariato saprà mitigare anche il più lancinante dei dolori per l’abbandono dello scranno togato.

Certamente ha ragione chi sostiene che il problema praticamente non esiste, o meglio non esiste più. Il numero delle toghe che scendono in politica sta nel palmo d’una mano e la volatilità di molte formazioni partitiche scoraggia quello che, un tempo, era la vera e propria adesione a una “chiesa” che preservava e tutelava nel tempo i propri adepti. Per capirsi , non è che i magistrati stiano proprio a sgomitare per una candidatura in tempi così burrascosi. La navigazione politica avviene di questi tempi in un mare periglioso, per cui molto meglio entrare ai piani alti della pubblica amministrazione dove potersi sempre riciclare nella fumosa categoria dei “tecnici in prestito” oggi in grande spolvero. E, quindi, una battaglia inutile, la solita norma manifesto? Non del tutto. Ha ragione chi dice che il divieto delle porte girevoli punta a tracciare una linea di demarcazione tra la politica e la magistratura e dar sostegno all’idea che non si può essere uomini e donne di parte per poi tornare a vestire il laticlavio della terzietà. Certo è anche vero che il 99,9% degli affari di giustizia non ha alcuna contaminazione politica o con la politica, ma meglio evitare, ci può stare.

Poi c’è un segnale meno evidente, ma non meno importante, mandato alle toghe. È inutile coltivare ancora l’idea di guadagnare consenso mediatico con indagini tanto pirotecniche quanto fallimentari per, poi, spendere il capitale di immagine lucrato nell’agone politico. È successo, eccome se è successo, e le scorie di questo immane danno alla magistratura italiana non sono state ancora del tutto smaltite. Anzi proprio il trentennale di Mani pulite avrebbe dovuto offrire l’occasione per ricostruire con coraggio e lucidità il corso di alcune carriere e individuare le contaminazioni che sono state consumate tra populismo giudiziario e politica. Contaminazioni in gran parte venute meno, ma che ancora mostrano rigurgiti in talk show e dibattiti all’insegna dei nostalgici del cappio. Se il Parlamento saprà dare anche regole certe alle carriere dei magistrati e all’assegnazione degli incarichi, allora una stagione di scorribande mediatiche sarà veramente all’epilogo e la giustizia potrebbe trovare la luce di una rinata credibilità.