Una pagina da chiudere
Magistrati e politica, pagina da chiudere: basta porte scorrevoli

Antonio Ingroia, per dare senso compiuto alla sua Rivoluzione civile, si mise in aspettativa dalla carica di pubblico ministero per candidarsi nelle elezioni politiche del 2013 come capolista in tutte le circoscrizioni elettorali della penisola. Nonostante cotanto impegno, per lo stesso “destino cinico e baro” che si accanì contro Saragat nel 1953, non fu eletto in nessuna perché la lista non superò lo sbarramento elettorale sia alla Camera che al Senato. Si pose dunque il problema di dove ricollocare Ingroia in servizio.
Poiché “i magistrati che sono stati candidati e non sono stati eletti non possono esercitare per un periodo di cinque anni le loro funzioni nella circoscrizione nel cui ambito si sono svolte le elezioni” (art. 8.2 D.P.R. n. 361/1957), al Consiglio superiore della magistratura non restò altra soluzione che assegnarlo all’unico luogo in cui non si era candidato: il collegio uninominale della Valle d’Aosta. Soluzione che adombrò non poco il Nostro, che comprensibilmente si riteneva chiamato a ben altri lidi e destini. Questo piccolo precedente mi è tornato in mente incrociando – con una certa temerarietà, lo ammetto – due letture. Da un lato l’intervista rilasciata a questo quotidiano lo scorso 8 giugno dal dott. Catello Maresca, sostituto procuratore presso la Corte di appello di Napoli, in aspettativa da quattro mesi per candidarsi (come da tempo preannunciato) a Sindaco della stessa città. Aspettativa “senza assegni”, come ci tiene a far sapere “a riprova del sacrificio che intendo fare per Napoli”, forse dimenticando però che tale essa deve essere per legge (art. 60.3 d.lgs. 267/2000).
Dall’altro, le proposte formulate dalla cosiddetta Commissione Luciani nominata dalla ministra della Giustizia in tema di assunzione da parte dei magistrati di cariche elettive e di governo (europee, nazionali, regionali o locali) e di loro rientro in magistratura. Proposte che da un lato introducono una disciplina più rigorosa di quella vigente (nonché di quella ipotizzata dalla cosiddetta riforma Bonafede) per quanto riguarda l’ingresso in politica dei magistrati, nella condivisibilissima convinzione “che qualsiasi incarico di natura politica sia suscettibile di appannare l’immagine di indipendenza e imparzialità della magistratura”. Da qui, pertanto:
a) l’aumento da due a quattro mesi del periodo di aspettativa non retribuita in cui magistrati devono collocarsi per essere eletti;
b) l’obbligo inderogabile per il magistrato eletto o che abbia accettato un incarico politico di collocarsi in aspettativa non retribuita (per quanto sia incredibile a dirsi, oggi un magistrato può, rimanendo tale, ricoprire contemporaneamente la carica di assessore di un Comune dove non esercita – ma magari ha appena finito di esercitare – le proprie funzioni, senza chiedere l’autorizzazione del Csm!);
c) l’obbligo per il magistrato di candidarsi per un mandato o un incarico da svolgere “in luogo territorialmente diverso e lontano da quello ove si sono svolte le funzioni giudiziarie”. Obbligo che, se già vigente, impedirebbe al dott. Maresca di candidarsi a Sindaco di Napoli, costringendolo a rimanere in magistratura (con indubbio quantomeno pari beneficio per la collettività tutta dato che, come il Nostro con modestia ci tiene sempre a far sapere, il suo “metodo di cattura dei latitanti è oggetto di studio nelle università”).
Ciò dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, che la candidatura del dott. Maresca, se certo non pone un problema di legalità, essendo essa al momento consentita per legge, pone un problema di legittimazione della magistratura. Le condivisibili proposte della Commissione Luciani suppliscono con il cemento del diritto a rinsaldare argini che dovrebbero essere presidiati innanzi tutto dalla politica e dalla deontologia e che dovrebbero indurre l’una a non candidare magistrati (anziché blandirli per il loro appeal elettorale), l’altra a non candidarsi da magistrato. Chi scrive peana a favore del dott. Maresca senza porsi minimamente il problema dell’opportunità della sua candidatura, dimostra innanzi tutto inconsapevolmente come decenni di magistrati in politica – e soprattutto pubblici ministeri come Ingroia – ci hanno abituato a considerare normale ciò che nelle altre democrazie normale non è perché contrario al fondamentale principio della separazione dei poteri.
Quando racconto ai colleghi costituzionalisti europei che nel nostro Paese un pubblico ministero può candidarsi a Sindaco della città in cui ha operato fino a pochi mesi fa non ci vogliono credere… Per questo è ormai anacronistico e purtroppo inverosimile affidarsi fideisticamente al senso di indipendenza che dovrebbe appartenere al foro interno di ogni magistrato. Siamo di fronte a un fenomeno la cui gravità non va misurata in termini quantitativi (nell’attuale Parlamento gli ex magistrati sono appena quattro: due di centro sinistra – Grasso e Ferri – e due di centro destra (Caliendo e Bartolozzi), anche se lo stesso Csm, a causa del suddetto mancato obbligo di autorizzazione, abbia ammesso di non essere in grado di fornire dati sui magistrati impegnati a livello locale (parere del 21 maggio 2014). Piuttosto la gravità del fenomeno va misurata in ragione della giustificata preoccupazione che esso provoca nell’opinione pubblica e che il caso Palamara, da questo punto di vista, non ha fatto altro che confermare e aumentare.
Del resto la stessa Costituzione vuole che i magistrati stiano lontani dalla politica quando prevede che per costoro “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici” (art. 98.3). Disposizione che la giurisprudenza della Corte costituzionale ha interpretato in modo rigoroso, costringendo i magistrati che vogliano candidarsi (incluso, quindi, il dott. Maresca) ed esercitare una carica politica alla non facile impresa di farlo senza partecipare in modo sistematico e continuativo alla vita politica di un partito (sentenza n. 170/2018). Dove le proposte della Commissione Luciani non convincono è quando trattano il tema – opposto ma ovviamente correlato – del destino del magistrato al termine del mandato elettivo o incarico politico. Mentre la riforma Bonafede prevedeva il divieto di ritorno in magistratura, stabilendo al posto delle attuali “porte girevoli” un “viaggio di sola andata” (ipotizzando l’assegnazione ad un non meglio precisato “ruolo autonomo” ministeriale), la Commissione invece consente il ricollocamento in ruolo del magistrato, stabilendo piuttosto limiti territoriali e funzionali (divieto di ricoprire cariche monocratiche o incarichi direttivi o semidirettivi nel territorio in cui lavoravano o si sono candidati per tre anni se non eletti, per cinque se eletti).
Una soluzione certamente ispirata a quello spirito di paziente mediazione cui l’attuale Ministra sta apprezzabilmente improntando il proprio operato ma che ci pare non colga appieno la dimensione inevitabilmente nazionale della competizione politico-elettorale, anche in virtù della ormai consustanziale sua caratterizzazione mediatica. Al netto dei paventati rischi di incostituzionalità che il divieto di ritorno in magistratura presenterebbe (sui quali forse sarebbe stato opportuno spendere qualche parola in più in sede di motivazione), proprio il precedente Ingroia dimostra quanto possa essere difficile, se non talora ipocrita, pensare di sterilizzare gli effetti dell’ingresso di un magistrato in politica circoscrivendone l’ambito territoriale di destinazione o obbligandolo a svolgere funzioni collegiali.
Ma al di là di tali considerazioni giuridiche, il caso del dott. Maresca, insieme a molti altri (non ultimo la pavloviana incontinenza verbale che affligge taluni magistrati al cospetto di telecamere e giornalisti), dimostra come una parte di loro faccia fatica a mantenere il senso di riserbo, equilibrio e misura cui devono improntare i loro comportamenti pubblici e privati. C’è ancora qualcosa di vero nell’espressione di Federico II per cui “la giustizia regna nel silenzio”.
E a quanti ancora, nonostante tutto, continuano pervicacemente a ripetere il ritornello che il magistrato è un cittadino che, al pari degli altri, ha diritto di partecipare alla vita culturale, sociale e politica della comunità in cui vive ed opera, forse vale la pena di ricordare che, prima ancora di essere un cittadino, egli rimane innanzitutto, sempre e dovunque un magistrato; un magistrato-cittadino, dunque, e non un cittadino-magistrato, perché i doveri ed i limiti derivanti dalla sua funzione devono sempre prevalere inevitabilmente sull’esercizio dei suoi diritti politici, imponendogli di apparire – oltreché essere – imparziale.
«I magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino» ma «le funzioni esercitate e la qualifica rivestita [da loro] non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale, al fine di stabilire i limiti che possono essere opposti all’esercizio di quei diritti (…). Tali limiti sono giustificati sia dalla particolare qualità e delicatezza delle funzioni giudiziarie, sia dai principi costituzionali di indipendenza e imparzialità (…) che le caratterizzano». L’ha scritto la Corte costituzionale, non io.
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