Il caso di Catello Maresca a me pare non molto complesso giuridicamente, se inteso nei termini specifici decisi dal Consiglio superiore della magistratura, e invece di non agevole soluzione in termini generali di politica legislativa e anche associativa (interna alla magistratura). Parto dal diritto del caso concreto. La Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno affermato che i magistrati devono poter godere degli stessi diritti di libertà garantiti a ogni altro cittadino, ivi compreso quello di elettorato passivo, cioè di candidarsi a una competizione politica. Questi diritti possono essere limitati, per legge, sia per la particolare delicatezza delle funzioni giudiziarie sia in forza dei principi di indipendenza e imparzialità.

È la Costituzione a mostrare il proprio sfavore – cito la Corte Costituzionale – «nei confronti di attività o comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura stabile, nonché manifesti all’opinione pubblica, con conseguente compromissione, oltre che dell’indipendenza e dell’imparzialità, anche dell’apparenza di queste ultime» (corsivo nostro). Il giudice, poi, dev’essere indipendente anche per assicurare l’imparzialità e, in specie, «l’esclusione di ogni pericolo di parzialità». Infatti costituisce illecito disciplinare per i magistrati l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici.

In questa stessa prospettiva può venire in rilievo – come nel caso di Catello Maresca deciso dal Csm – l’articolo 2 del regio decreto legislativo 511 del 31 maggio 1946 (con l’attinente circolare del Csm del 26 luglio 2017) che riguarda il gravoso procedimento amministrativo di trasferimento di ufficio per incompatibilità ambientale e/o funzionale, il quale inizia con una prima fase conoscitiva e istruttoria, in ordine alla sussistenza di elementi idonei a giustificare l’apertura del procedimento, che può concludersi con l’archiviazione o con l’apertura del procedimento. È chiaro, dunque, che l’apertura di per sé sola esige «elementi idonei» e che, quando venga in gioco, come in questo caso, un diritto di libertà sancito dalla Costituzione e dalla Cedu (quello di candidarsi), quegli elementi, per essere idonei, devono da subito riguardare molto concretamente e specificamente attività o comportamenti forieri di «legami stabili» col mondo politico giunti al vaglio dell’opinione pubblica.

Questi elementi, a giudizio del Csm (la maggioranza dei suoi votanti), non sono emersi nel caso Maresca. Come tutte le opzioni interpretative, questa soluzione è opinabile (l’alternativa sollecitata dalla minoranza era un approfondimento istruttorio), ma non errata e peraltro la trovo garantista proprio nella prospettiva di un procedimento di incompatibilità, strumento capace di minare a sua volta ciò che vorrebbe garantiti, cioè l’indipendenza e l’imparzialità del magistrato. Ma la questione è anche, come abbiamo detto, politica in termini generali.

Proprio la vicenda (da ultimo) della possibile candidatura di Maresca rende evidente che, quando si tratti di un diritto di libertà garantito dalla Costituzione, le sue limitazioni devono essere poste dalla legge e con chiarezza: cioè da un atto proveniente dall’organo politico per eccellenza, il Parlamento. La legge può anche comprimere grandemente questo diritto, ponendo il magistrato di fronte alla scelta tra candidatura e dimissioni (come talune legislazioni europee prevedono e la Corte europea ha a più riprese ritenuto che esse possano certamente fare proprio per l’importanza essenziale ai fini della tenuta democratica dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice).

Ma sappiamo che in Italia la legge tace e lascia un’ampia zona grigia, riguardante i tempi della scelta della candidatura con ciò che ne consegue. E questo è frutto di una precisa responsabilità politica. La politica associativa interna alla magistratura ha una sua regola deontologica e ha sollecitato Maresca a sciogliere la riserva. Di più non può e non deve fare (ineccepibile in tal senso la posizione di Marcello De Chiara, presidente della sezione napoletana dell’Anm). Sta allora alla coscienza del singolo magistrato che voglia esercitare quel diritto di libertà autolimitarsi, e sta alla società civile farsi un giudizio del suo comportamento sia per i tempi sia per i modi della scelta.

Ciò non significa che il magistrato che voglia far politica può farlo quando e come vuole: sopra ho ricordato le regole esistenti e il principio guida che da esse si trae, cioè che non vi siano attività o comportamenti capaci di esprimere un legame stabile col mondo politico e che tale sia percepito dalla società civile. Senza una legge, la zona grigia della fase antecedente all’ufficializzazione della candidatura e l’opinabilità intrinseca alla valutazione dei «comportamenti e delle attività» che in tale zona vanno stagliandosi, resta fittamente grigia: nel grigiore, oggi, propendo per l’esercizio di un diritto di libertà piuttosto che per una procedura (anche solo paventata) di apertura per incompatibilità ambientale.

Una chiosa finale: anche questa vicenda dimostra quanto sia importante – non solo per la magistratura – che il Csm, come ogni altro organo costituzionale, goda di salda credibilità.