Un simbolico filo rosso in quel di Palermo, dove la successione agli eterni ventidue anni di governo della città di Leoluca Orlando, che ha riacceso i riflettori su mafia, antimafia e mafia dell’antimafia, pare aver fatto ritrovare insieme Alfredo Montalto e Roberto Scarpinato. Cioè il presidente della corte d’assise che aveva condannato tutti gli imputati del processo “Trattativa Stato-mafia” e scritto una sentenza di 5.000 pagine che sarà clamorosamente sconfessata due anni dopo nel processo d’appello. Proprio quello in cui un altro prestigioso magistrato, il procuratore generale Roberto Scarpinato, che rappresentava l’accusa, subiva la sconfitta più bruciante della sua carriera.

Quel patto maledetto e infamante tra i rappresentanti dello Stato, i politici e i militari da una parte, e gli uomini di Cosa Nostra dall’altra non ci fu, fu solo fantasia, dissero i giudici. E il procuratore Scarpinato, che all’ipotesi contraria aveva dedicato gran parte della sua vita professionale, finì per andare in pensione con questo grumo doloroso in mezzo al petto. Ma non rassegnato, come anche la storia palermitana di questi giorni insegna. E il suo collega (perché qui da noi i giudici e gli avvocati dell’accusa continuano a stare sulla stessa barca) Montalto è intanto passato dalle aule di tribunale a un altro ruolo, nominato dal Csm a capo dei gip di Palermo nel 2020, prima ancora della sentenza d’appello per il “processo trattativa”. Certo, Palermo è piccola, e ci si ritrova un po’ tutti, soprattutto in quel mondo così ben raccontato da fronti opposti da Sciascia e Pasolini. E in quel mondo in cui è feroce il gioco del chi c’era e chi non c’era, a cavallo dei trentennali della strage di Capaci e quella di via D’Amelio, ecco il filo rosso del “processo trattativa” congiungere metaforicamente il capo dei gip che arresta per voto di scambio politico-mafioso un candidato del centrodestra, e l’ex pg pensionato che arringa una folla di duemila palermitani con una lectio magistralis proprio su mafia e politica.

A volte ritornano. E non stiamo parlando di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, cui non viene perdonato il fatto di non accontentarsi di essere fantasmi del passato. E soprattutto il fatto di essere vivi, di poter avere relazioni, addirittura parlare e agire la vita politica. Palermo, e non solo, pullula di signori virtuosi che mai voterebbero nelle urne per il ripristino della pena di morte, ma che nei fatti vorrebbero la sparizione fisica di certe persone condannate (non si sa quanto giustamente), per l’evanescenza di aver appoggiato da fuori la mafia, pur dopo che hanno scontata la pena. Alla faccia della Costituzione e del suo articolo 27. Roberto Scarpinato è tornato a parlare con il refrain di sempre, quaranta minuti di denuncia antimafia, e dice di vedere l’orologio spostarsi all’indietro, senza rendersi conto di essere lui a far girare al contrario le lancette. È pur vero che anche l’orologio rotto due volte al giorno segna l’ora giusta, ma quando è rotto non c’è molto da fare. Un po’ come quando si è perso il treno. Perché, dal momento che una sentenza ha ormai seppellito tutte le tesi del complotto tra lo Stato e la mafia e dei mandanti occulti delle stragi, continuare a insistere su depistaggi e settori deviati di servizi e massoneria e pezzi della destra eversiva? Non è bastato aver sconfitto sul piano militare e nelle aule di tribunale la faccia feroce della mafia?

Evidentemente non basta. Ed ecco il nuovo nemico, l’abolizione dell’ergastolo ostativo, voluta dalla Cedu e dalla Corte Costituzionale, e un pochino anche dal Parlamento. Ecco l’immobilità delle famose lancette dell’orologio: “Lo Stato rinuncia a conoscere la verità sui mandanti occulti delle stragi, di cui sono depositari una quindicina di boss, che con questa riforma non avranno motivo di collaborare”. Il dubbio che forse questi quindici non abbiano niente più da dire, o da aggiungere alla valanga di dichiarazioni già registrate da una serie di boss di rango prontamente “pentiti” dopo l’arresto, non sfiora mai la fronte di chi vive di certezze anche quando la storia le ha già sconfessate. E c’è da sperare, anche se pare un po’ paradossale, che all’altro capo del filo rosso, quelle tenuto tra le mani del giudice Montalto, ci sia la certezza di aver fatto la cosa giusta, con l’arresto di Pietro Polizzi, candidato al Comune di Palermo e recordman di preferenze (pare un migliaio, e non sono poche) e anche di spostamenti elettorali. Li ricorda La Stampa, ma non Il Fatto, chissà perché.

Meglio mettere il faccione di Totò Riina davanti alla bandiera di Forza Italia (ancora ti brucia eh Marcolino, quella sedia pulita con il fazzoletto da Berlusconi?) e distrarre l’attenzione. Ricapitoliamo la carriera di Polizzi: democristiano dell’Udc, poi candidato in una lista di sostegno a Leoluca Orlando nel 2017, poi renziano e infine approdato a Forza Italia. Cose che capitano, nelle situazioni politiche locali. Strano però che nel 2017 nessun gip (ma il dottor Montalto faceva un altro mestiere e si occupava della “trattativa”) abbia mai avuto il sospetto che questo portatore di voti ne accettasse anche qualcuno “sporco”. E’ capitato ora, e se i sospetti, derivati da un’intercettazione, hanno qualche consistenza, bene ha fatto il giudice ad attivarsi per prevenire la commissione di un reato, cioè lo scambio tra i voti che gli avrebbe portato il costruttore Agostino Sansone (fratello di colui che ospitava Totò Riina quando fu arrestato nel 1993) e la promessa di favori. Che, a occhio, dovrebbero essere un po’ più concreti di quel che si intuisce dalla frase, ripetuta due volte, e intercettata il 10 maggio scorso, dal candidato Polizzi: “Se sono potente io, siete potenti voialtri”.

Parole che possono voler dire molto, o niente. Che il gip ha ritenuto premessa di comportamenti che giustificavano l’arresto, “ineluttabile e urgente per scongiurare il pericolo che il diritto-dovere di voto sia trasfigurato in merce di scambio assoggettata al condizionamento e all’intimidazione del potere mafioso”. E ancora siamo nel campo delle ipotesi su quel che avrebbe potuto accadere, ma di cui probabilmente non si saprà mai se sarebbe poi accaduto. Ma che intanto hanno prodotto arresti e seminato panico da una parte, il centrodestra (ma non pare particolarmente imbarazzato il candidato professor Roberto Lagalla), e sogghigni di soddisfazione dall’altra (anche se non ha particolarmente infierito il rivale Franco Miceli). Domenica si vota, a Palermo. La città in cui dovrebbe essere più urgente smaltire le 170mila tonnellate di rifiuti e seppellire le 1.200 bare, eredità dell’ultima amministrazione Orlando, che non continuare a tessere il logoro filo rosso del circuito infinito di mafia-antimafia-mafia dell’antimafia.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.