Gli Stati Uniti ci provano, ancora una volta. Joe Biden vuole che si arrivi il prima possibile a un accordo tra Israele e Hamas che dia la libertà agli ostaggi israeliani e una boccata d’ossigeno alla popolazione della Striscia di Gaza. E l’amministrazione Usa lavora senza sosta anche con una strada che appare sempre più in salita. Lo ha confermato ieri anche il segretario di Stato, Anthony Blinken, che a Londra ha detto che il suo governo lavora con Egitto e Qatar (gli altri due mediatori in questo negoziato) “per colmare eventuali lacune rimanenti”. “Molto presto sottoporremo la questione alle parti e vedremo cosa diranno”, ha aggiunto durante la conferenza stampa con il suo omologo britannico, David Lammy, “più del 90% delle questioni sono state concordate e decise, quindi siamo arrivati a una manciata di questioni che sono difficili ma sono pienamente risolvibili”.

Il centro di comando

Dichiarazioni importanti. In primis perché confermano l’asse tra Londra e Washington nel delicato fronte mediorientale (“special relationship” certificata anche dall’articolo scritto sul Financial Times dal capo della Cia, William Burns, e dal vertice dell’Mi6, Richard Moore). Ma soprattutto perché sono arrivate dopo le notizie da Khan Younis, con l’ultimo bombardamento israeliano che ha colpito la tendopoli di al-Mawasi. Un’area definita “zona umanitaria”, quindi sicura (anche se le Nazioni Unite hanno già ampiamente criticato questa designazione), dove sono presenti i rifugiati palestinesi evacuati da altre parti della Striscia di Gaza. E che ieri è stata oggetto di un raid dei caccia israeliani contro i miliziani di Hamas. All’inizio, le autorità di Gaza e la Difesa civile della Striscia avevano parlato di 40 morti. Poi è stato lo stesso ministero della Salute locale a ridurre il numero delle vittime a 19. Un ridimensionamento non secondario, non solo per la cifra dei morti, ma anche perché a compierlo è stato un organo del governo, quindi controllato da Hamas, che per le Israel defense forces era il vero obiettivo di questo attacco.

La vendetta

Le forze armate dello Stato ebraico hanno subito comunicato che era stato colpito un centro di comando e controllo della milizia all’interno della tendopoli, e che erano state prese tutte le precauzioni possibile per limitare al massimo i danni ai civili. L’organizzazione di Yahya Sinwar ha negato che nel luogo del raid vi fossero suoi miliziani, dicendo che si tratta di “una palese menzogna degli occupanti”. Ma per l’Idf, che ha messo in atto l’operazione insieme ai servizi interni dello Shin Bet, il raid è servito a eliminare in particolare tre comandanti del gruppo: Samer Ismail Khader Abu Daqqa, capo delle forze aeree di Hamas, Osama Tabash, vertice della sorveglianza e degli obiettivi dell’intelligence e Ayman Mabhouh. Tutti e tre hanno avuto un ruolo nella pianificazione e nella messa in atto dell’attacco del 7 ottobre. E ora, su loro, è calata la vendetta dello Stato ebraico come quella che alcune settimane fa ha colpito il comandante del battaglione Tel Sultan, appartenente alla Brigata Rafah: Mahmoud Hamdan.

L’IDF guarda al Libano

La guerra a Gaza dunque non si ferma, nonostante i negoziati, la pressione su Benjamin Netanyahu da parte della piazza e della comunità internazionale, e con la Cisgiordania che ribolle ormai da settimane. Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ieri è apparso sicuro. “Hamas come formazione militare non esiste più. Hamas è impegnata in azioni di guerriglia e noi continuiamo a combattere i terroristi di Hamas e perseguire la sua leadership”, ha detto il ministro (ormai separato in casa del governo). Ma per il vertice della Difesa israeliana, ora è giunto il momento che l’Idf guardi al Libano. “Siamo vicini a completare la nostra missione nel sud. Il centro di gravità si sta spostando verso nord, dove abbiamo un compito che non abbiamo ancora concluso, ed è quello di cambiare la situazione della sicurezza e il ritorno dei residenti alle loro case”. Il messaggio per Hezbollah, e quindi per l’Iran, è stato forte e chiaro.