È difficile immaginare una trattativa nella quale un negoziatore che intenda dismettere un bene conceda l’esclusività al potenziale acquirente, dichiari che sono precluse altre scelte, in particolare quella di non alienare più il bene in questione e di non avere intenzione di continuare a gestirlo autonomamente, poi accetti la fissazione di un termine-capestro, ad opera di un’autorità terza, entro il quale si deve concludere il negoziato. Come non si può vedere che si tratti della condizione migliore per il contraente prescelto il quale così è massimamente invogliato a far valere la sua forza contrattuale? È quanto è accaduto nella trattativa tra il Tesoro e l’Unicredit per la cessione a quest’ultimo di un perimetro definito del più antico istituto di credito al mondo, di cui lo Stato ha il 64 per cento del capitale. Chi scrive sin dall’inizio aveva più volte segnalato questo vizio radicale della trattativa.

Per le ragioni indicate, l’Unicredit, dopo aver posto in premessa l’irrinunciabile condizione della neutralità di tale aggregazione per il proprio capitale, ha presentato richieste per il capitale del Monte da soddisfare prima dell’operazione in questione, per rischi legali, per i prestiti deteriorati, per gli esuberi di personale, per la parte della Banca da acquisire senza interesse per un’altra parte, per la fruizione della norma “in itinere” che trasforma le imposte differite, nei casi di concentrazioni societarie, in crediti di imposta. Nel complesso, il soddisfacimento di queste che, più che la classica “dote” sono in effetti pretese – ma che erano inscritte nella genesi e nell’impostazione data al negoziato – secondo alcune valutazioni, oscillerebbe tra i 7 e gli 8 miliardi di fondi pubblici, se non addirittura di più.

A questo punto il Tesoro non ha potuto continuare il negoziato (sarebbe stato un ulteriore consegnarsi “mani e piedi” al contraente) e con un comunicato congiunto ne ha dato notizia sottolineando l’impegno reciproco delle parti, come se il blocco della trattativa fosse dovuto a un terzo non conosciuto e non agli iniziali vizi di fondo. Gli sviluppi della vicenda, che nasce nel 2007-8 con la sciagurata operazione Antonveneta, purtroppo autorizzata, restano ancora negativi se li si guarda dal lato delle misure introdotte o tentate per il definitivo rilancio del Monte il quale, comunque, presenta segni di ripresa. Concorrono, naturalmente, tutto ciò che si sa sulla storia dell’Istituto, i rapporti con le forze politiche, sociali e finanche religiose, le “porte girevoli” con gli incarichi politici e nella stessa Fondazione.

Ma l’Istituto ha avuto pure, in un non vicino passato, un lungo periodo di floridezza, al quale sono seguite scelte sbagliate o una ritrazione rispetto a opportunità di crescita per linee esterne, soprattutto per l’intento di mantenere su di esso il controllo da parte della Fondazione e, comunque, degli enti pubblici territoriali. Tuttavia il colpo mortale è stata l’acquisizione anzidetta – che non si ricorderà mai troppo – la madre degli sviluppi negativi che ne sono seguiti fino a oggi. Un’adeguata sistemazione del Monte richiede, a questo punto, chiarezza estrema sugli obiettivi, la necessità che il termine di scadenza per l’uscita dello Stato dal capitale dell’Istituto (31 dicembre) sia adeguatamente prorogata di concerto con la Commissione Ue, che non si abbandoni affatto l’ipotesi “stand alone”, che un eventuale nuovo negoziato faccia tesoro dell’esperienza nettamente negativa vissuta “in corpore vili” nel rapporto con l’Unicredit.

Insomma, si sarà finalmente capito che non si può essere “ab initio” prigionieri di una cattiva impostazione del negoziato. D’altro canto, non si può ancora sbagliare: un “bis in idem” sarebbe disastroso e impedirebbe pure che la soluzione di questo cruciale problema possa essere pure un pilastro per la riorganizzazione e il consolidamento di una parte del sistema bancario. Lo si deve alla storia dell’Istituto, ai dipendenti, al territorio e alla sua economia. È una prova che consentirà pure di saggiare “per facta concludentia” la credibilità che riscuotono anche in questo campo i cosiddetti “Migliori” – i componenti dell’attuale Esecutivo – non solo all’interno, ma anche a livello internazionale, al di là di quel che ripetono i molti “ laudatores”. Insomma, una questione che va ben oltre il pur fondamentale problema dell’Istituto senese.