Nell’edizione di ieri del Fatto quotidiano Marco Travaglio ha rinunciato al suo solito editoriale e ha risposto alla lettera di un lettore che protestava per l’indulgenza con cui lui (e anche Gad Lerner: new entry del Fatto) avesse assolto Indro Montanelli per aver sposato nel 1935 una giovanissima di dodici anni, Destà, comprata da una famiglia etiope per soddisfare i suoi bisogni sessuali senza prendersi la sifilide e per garantirsi, tra una battaglia e l’altra, il cambio di biancheria. Non sia mai che in mezzo ai cadaveri potesse avere i calzini sporchi. Dopo le polemiche sulla statua del giornalista, che partecipò all’invasione italiana dell’Etiopia, il tema è tornato al centro delle polemiche giornalistiche e social. E così anche Travaglio, considerato l’erede di Montanelli, si è sentito in dovere di spiegare le ragioni del suo nume tutelare. Ne è venuto fuori un editoriale raccapricciante, pieno zeppo di argomentazioni sessiste e razziste.

Quando si tratta di manette, bisogna ammetterlo: mister “più galera per tutti” è quasi imbattibile. Nessuno più di lui è capace di distribuire anni e anni di gattabuia. Diverso è il discorso quando si tratta di parlare di un tema così complesso che intreccia il potere maschile sulle donne e il colonialismo italiano. Le cavolate messe una dietro l’altra sono troppe per citarle tutte. Ma alcune sono imperdibili. Quando per esempio paragona il giornalista scomparso a Giuseppe. Non l’attuale presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Ma lui, proprio lui, Giuseppe di Nazareth. Il falegname scelto da Dio per fare da padre sulla terra a suo figlio Gesù. «…Anche Maria di Nazareth – scrive mister “più galera per tutti” – si sposò a 13-14 anni: pedofilo pure Giuseppe?». O quando pensa di assolvere Montanelli spostando l’età di Destà dai 12 ai 14 anni. Non una parola su di lei, sulla violenza subìta, sul fatto che fosse infibulata, non una seria critica al modello di inciviltà che questa storia rappresenta. Ma solo una sfilza di giustificazioni per arrivare al culmine del ragionamento. In fondo il vero razzismo non è trattare le donne e gli uomini come schiavi, asservirli al proprio potere, negare loro libertà e dignità. No. Ma stiamo scherzando?! Il vero razzismo per Travaglio è «semmai quello di tentare di imporre i nostri stili di vita ad altri popoli…». Ragionamento dal quale si deduce che principi come uguaglianza e libertà siano da considerare per lui al pari degli stili di vita.

Eh no, gentile mister “più galera per tutti”. La libertà delle donne non è uno stile di vita, è un principio che non si può negoziare. È un diritto, un diritto universale che però lei sembra ignorare, al pari di altri principi fondamentali come la presunzione di non colpevolezza, il diritto a un giusto processo, il diritto a non essere torturati dallo Stato quando si viene imprigionati, il diritto a non esser discriminati in base alla propria origine. La guerra a cui durante il fascismo partecipò Montanelli era una conquista coloniale e sarebbe stato interessante che il direttore del Fatto avesse fatto un ragionamento storico e politico. Invece procede a colpi di approssimazioni e pur citando lo storico Angelo Del Boca, che con il suo lavoro ha svelato la violenza del colonialismo italiano che peraltro usò il gas nervino, lo fa sempre per giustificare l’operato di Montanelli. Alla fine della lettura viene un sospetto. Un atroce sospetto.

E se il discorso di Travaglio più che dettato dalla necessità di mettere al riparo la figura del suo idolo fosse invece spinto da una profonda convinzione? Viene cioè la paura che uno dei principali giornalisti italiani, ospite fisso dei salotti buoni della tv italiana, considerato da molti un’icona di buon giornalismo e (fatto ancora più inspiegabile) anche un’icona di sinistra, pensi ci siano casi e Paesi in cui la violenza e le dicriminazioni contro le donne o contro chi ha una pelle diversa possano essere accettate perché è consuetudine, perché è normale, perché… è uno stile di vita. Che paura, davvero, che paura.

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