Il governo israeliano era stato chiaro sin dal principio: l’accordo con Hamas per la liberazione dei primi 50 ostaggi sarebbe stato molto complesso e gli ostacoli sempre in agguato. Uno di questi – che sembra essere stato decisivo per il ritardo di un giorno rispetto al cronoprogramma previsto in settimana – è stato la compilazione della lista con i nomi degli ostaggi da liberare. Il direttore del Mossad, David Barnea, era volato due giorni fa in Qatar proprio per definire gli ultimi dettagli a riguardo, per ridurre i rischi dell’ultimo minuto. Ma quell’incontro evidentemente non è bastato a dissipare ogni dubbio, al punto che nella notte tra mercoledì e giovedì è arrivata la dichiarazione del capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano, Tzachi Hanegbi, sullo slittamento a venerdì della tregua e della parallela liberazione dei primi rapiti.

La fragilità dell’accordo sugli ostaggi

Un ritardo “amministrativo” hanno spiegato alcune fonti ai media israeliani. Nessun fallimento dei negoziati, quindi, ma un intoppo che, se ha fatto comunque capire l’interesse di entrambe le parti a continuare sulla via dell’accordo, così come degli Stati Uniti, ha anche mostrato le fragilità del patto. Fragilità confermate ancora una volta nella serata di ieri dal portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, che ha spiegato come la procedura non fosse completata e che Hamas, nei giorni a seguire, potrebbe usare le armi del “terrorismo psicologico” per piegare l’opinione pubblica israeliana.

Preoccupazioni lecite, specialmente dopo lo slittamento di giovedì, e che lasciano Israele col fiato sospeso ma anche costretto ad accettare la cruda realtà di un negoziato con Hamas. Un patto difficile da accettare e complesso da mettere in atto, e i cui nuovi dettagli li ha forniti ieri il governo del Qatar, che in questi giorni ha assunto un ruolo di primo piano nelle trattative. L’inizio del cessate il fuoco, in base a quanto detto dal portavoce del ministero degli Esteri di Doha, è previsto questa mattina alle sette (ora locale), mentre la liberazione dei primi 13 ostaggi alle ore 16. Le persone dovrebbero tornare in Israele attraverso il valico di Rafah, in Egitto. E nello scambio, come spiegato dalle stesse organizzazioni, saranno coinvolte Croce Rossa e Mezzaluna Rossa.

La tregua a Gaza di quattro giorni

Confermati i quattro giorni di tregua, che si spera possano essere prolungati con la liberazione di altri ostaggi, oltre a quelli previsti. E mentre lo Stato ebraico ottiene il ritorno a casa di 50 – tutti donne e bambini – rapiti nella barbarie del 7 ottobre, Hamas dal canto suo riceve, oltre lo stop dei combattimenti e la liberazione di 150 detenuti palestinesi (donne e minorenni), il blocco per sei ore al giorno dei voli dei droni israeliani sulla Striscia e l’arrivo di aiuti umanitari. Per le parti in guerra si tratta di un banco di prova difficile. Dopo 48 giorni di guerra, una pausa nei combattimenti rappresenta un passaggio delicato.

E l’interesse degli analisti riguarda anche altri fattori, oltre allo scambio di prigionieri. Da una parte, dovrà essere valutata la capacità di Hamas e del Jihad islamico palestinese di controllare Gaza e il resto della Striscia nonostante l’evidente perdita di potere dovuta all’invasione delle Israel defense forces. La possibilità di schegge impazzite non è minima, e su tutto aleggia lo spettro di una resa dei conti interna o di un cambio di idee repentino da parte di Hamas. Dall’altra parte, è opportuno riflettere su come Israele possa riprendere l’iniziativa bellica dopo la tregua, visto che rimane la duplice spada di Damocle degli ostaggi e di come si ristabiliranno le forze nemiche. Le sfide sono molte e a esserne consapevole è prima di tutto il governo.

La posizione di Israele

Il premier Benjamin Netanyahu, incontrando il ministro degli Esteri britannico David Cameron, ha ribadito che la sacralità dell’impegno assunto per la liberazione delle persone rapite, ma ha anche sottolineato che Israele “porterà avanti i suoi obiettivi di guerra, e cioè sradicare Hamas, perché Hamas ha già promesso che lo rifarà ancora e ancora e ancora”. Ancora più preciso sulla ripresa dei combattimenti è stato il ministro della Difesa Yoav Gallant, che secondo una ricostruzione del quotidiano Haaretz all’inizio era uno dei più contrari a qualsiasi ipotesi di accordo probabilmente per il “terribile senso di colpa” delle falle che hanno portato al disastro del 7 ottobre. Gallant ha cambiato approccio nel corso delle ultime settimane, spinto anche dalla pressione di alcuni importanti vertici dell’intelligence e dal principale alleato del Paese, cioè gli Stati Uniti. Ma ieri, il ministro della Difesa ha comunque voluto mettere in chiaro che quella inserita all’interno dell’accordo sugli ostaggi sarà una tregua breve, e che alla fine di essa “i combattimenti continueranno intensamente e faremo pressione per riportare indietro altri ostaggi”. Gallant, visitando la base dello Shayethet 13, si è anche lanciato in una previsione sul futuro, ipotizzando altri due mesi di ostilità.

Gli ultimi sviluppi del conflitto

La guerra, del resto, è continuata anche ieri. Le Tsahal hanno arrestato il direttore dell’ospedale al Shifa, il dottor Mohammed Abu Salmiya, sospettato di avere avallato l’utilizzo dell’ospedale da parte di Hamas, che nel tempo l’ha trasformato in un “centro di comando e controllo”. E nella mattina di ieri, le Idf hanno comunicato di avere colpito nelle 24 ore precedenti circa 300 obiettivi nemici. E la preoccupazione delle forze armate riguarda ora anche il possibile ritorno dei profughi da sud nella città di Gaza. La tensione è continuata anche a nord. Hezbollah ha lanciato decine di razzi contro il nord di Israele, in una giornata che ha visto arrivare nel Paese dei cedri anche il ministro degli Esteri iraniano. Il partito di Hassan Nasrallah nei giorni scorsi ha confermato di aderire alla tregua con Israele. E da Teheran sembra essere arrivato il semaforo verde, visto che lo stesso ministro, incontrando a Doha il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha comunicato il favore degli Ayatollah per la tregua a Gaza.