Sarà vera pace? Lo abbiamo chiesto al professor Enrico Molinaro. Studioso di diritto comparato e relazioni internazionali, materie del suo dottorato di ricerca sui “Luoghi Santi di Gerusalemme negli accordi di pace in Medio Oriente” presso Hebrew University, Molinaro vive e lavora in Israele dal 1994. Attualmente è il coordinatore nazionale per la Fondazione Anna Lindh per l’Italia.

Arriverà l’accordo sulla tregua?
«Sì, sono ottimista. Non può non arrivare. Possono esserci limature, ritardi, rimandi, ma alla fine arriverà. E quando ci sarà un cessate il fuoco anche provvisorio, diventerà in breve definitivo».

Perché è così sicuro?
«Vivo a Gerusalemme. Parlo con la gente, vado al supermercato, ascolto la radio. Oggi l’atmosfera che si vive qui è irreale, quasi onirica: sembra tutto sospeso in attesa della grande notizia. Le persone stanno tutte, al lavoro, con l’orecchio alla radio. L’attesa dell’annuncio della tregua ha in sé una carica storica che ne farà un punto di svolta».

Uno spartiacque tra un prima e un dopo?
«Assolutamente sì. E vale per Israele come per i palestinesi, gli uni e gli altri vogliono voltare pagina rispetto a questa guerra. Se ci fossero libere elezioni, oggi pochissimi palestinesi voterebbero per Hamas».

L’accordo si deve a Biden o è già in campo la diplomazia di Trump?
«Questo accordo si deve all’amministrazione Biden che lo sta preparando da un anno, soprattutto con Blinken che è stato qui in Medio Oriente a verificarne le clausole più volte. Biden è sembrato debole, ma in realtà va detto che è stato bravo a scegliere i suoi: il segretario di Stato, la rete diplomatica e la Cia che qui abbiamo visto operare si sono dimostrati di alta qualità e affidabilità. Naturale che Biden volesse lasciare il suo incarico lasciando un segno nella storia».

L’accordo sugli ostaggi non sembra cristallino. Dalle carceri israeliane escono prigionieri ben nutriti, da parte di Hamas forse assisteremo alla consegna di cadaveri. Faranno ritrovare corpi. E c’è differenza…
«Non sappiamo al momento quanti saranno gli ostaggi vivi e quanti quelli morti, di cui Hamas consegnerà il corpo. Faccio presente come per le culture ebraiche e islamiche i morti abbiano comunque una importanza capitale. Nei documenti delle trattative sembra si menzionino anche i corpi inanimati, da una parte e dall’altra. Gli israeliani vogliono riavere tutti gli ostaggi, vivi e morti. Hamas reclama il corpo di Sinwar».

A proposito di Sinwar, c’è il fratello oggi a capo dei negoziatori?
«Sembra di sì, anche se – dopo la falcidia operata dagli israeliani – Hamas ha imparato a non rendere pubblici i nomi e i volti dei suoi dirigenti. Un altro elemento che fa ben capire come siano cambiate le cose, in campo palestinese, dal 7 ottobre 2023 a oggi».

Hamas è stata decimata. I tunnel scoperchiati e allagati, poi distrutti. Hezbollah ha perso moltissime delle sue armi. Gli Houthi sono stati colpiti nello Yemen. I capi del terrorismo sono stati giustiziati. Quasi tutti i loro arsenali, inclusi quelli vigliaccamente nascosti tra sedi Unrwa, scuole e ospedali, fatti saltare in aria. E Israele ha colpito più volte Teheran, con operazioni mirate e missilistiche. Netanyahu ha vinto la guerra?
«Ha vinto la guerra, certo. Ma a carissimo prezzo, e le contestazioni lo dimostrano. E quando finisce una guerra, anche i vincitori poi vengono messi a riposo. O giudicati. La popolarità di Bennett sta crescendo e potrebbe essere lui l’uomo che, intestandosi la riuscita della tregua, porterà Israele in un nuovo decennio di pace».

Un po’ come successe a Winston Churchill…
«Paragone interessante, qui però Netanyahu aveva già i consensi al minimo storico prima del 7 ottobre. Ora che quel periodo si chiude, si fanno i conti. E Bennett diventa la figura di raccordo nazionale, di rilancio della democrazia israeliana».

E a Gaza?
«A Gaza i palestinesi vogliono voltare pagina, non vogliono più sentir parlare di guerra. Israele dovrà ritirarsi completamente e se si riuscissero a fare libere elezioni, dicono i sondaggi, emergerebbe la figura di Mohammad Barghouti. Se Israele lo liberasse, sarebbe lui il leader di tutta l’Autorità nazionale palestinese, dalla Cisgiordania a Gaza».

Il nuovo Arafat?
«Ecco, sì. Il nuovo Arafat. Un laico, decisamente ostile ad Hamas e lontano dagli iraniani. Se arriva la firma sulla tregua, può essere l’inizio di un’era nuova per la regione, adesso».

Adesso. Akhshav, in ebraico. Una parola che dal 7 ottobre in poi abbiamo imparato a usare tutti.
«Esatto, akhshav. Lo ripetono ogni giorno i parenti degli ostaggi, vogliono che la restituzione dei loro cari arrivi adesso, e credo che oggi quell’adesso sia arrivato».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.