Mentre l’escalation del Nagorno Karabakh infiamma il Caucaso e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, le superpotenze continuano il loro walzer della diplomazia per non interrompere i già fragili canali di comunicazione.

Negli Stati Uniti, il presidente Joe Biden attende l’omologo ucraino Volodymyr Zelensky, che ieri si è preso la scena nel Palazzo di Vetro ribadendo le linee rosse riguardo la guerra ed eventuali trattative di pace con Mosca. Al Consiglio di Sicurezza, il leader ucraino ha reiterato la richiesta del completo ritiro russo dalla Crimea e dal Donbass e ha sfidato l’organismo a togliere il diritto di veto a Mosca, ritenuto “ciò che ha spinto l’Onu in questa situazione di stallo”.

Il vertice con Biden, che fino a qualche settimane fa non era previsto (quantomeno pubblicamente) conferma il desiderio dei governi di Kiev e Washington di sedersi intorno al tavolo per discutere di ciò che in questo momento rappresenta il fulcro dei loro rapporti bilaterali: il supporto alla controffensiva. Dal fronte statunitense non sono previsti ripensamenti repentini nei confronti del sostegno alla causa ucraina.

In ogni caso, a molti osservatori non è sfuggito il tempismo della rivoluzione nella Difesa di Kiev in vista del blitz americano di Zelensky. Il licenziamento dei sette vice arriva a poche settimane dal siluramento del ministro, sostituito da Rustem Umerov. Un cambiamento reso necessario dopo le accuse di corruzione al dicastero e che sembra certificare la forte presa di posizione della Nato e degli Usa sulle modalità di gestione degli aiuti e dei soldi destinati alle forze armate del Paese invaso.

Il vertice serve per fare il punto della situazione su quello e sull’andamento delle operazioni, che per Biden devono avere risultati tangibili da portare all’opinione pubblica.

Nel frattempo, la Casa Bianca guarda anche ai suoi complicati rapporti con la Cina, avversario sul fronte dell’Indo-Pacifico così come su scala globale, ma anche interlocutore necessario per stemperare la tensione su Taiwan quanto per trovare canali di comunicazione più chiari tra Washington e Mosca, di cui Pechino è ancora saldamente partner.

Negli ultimi giorni, è stato particolarmente significativo l’incontro che si è tenuto a Malta tra il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan, e il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi. Il vertice (quasi a sorpresa) testimonia la volontà di Pechino e Washington di dialogare su quelli che sono i punti essenziali in cui si scontrano le rispettive agende internazionali: la situazione di Taiwan, la guerra in Ucraina, ma anche il blocco all’export tecnologico verso la Repubblica popolare, che per il governo di Xi Jinping è considerato un embargo per minare la crescita della potenza economica cinese.

Pochi giorni dopo, a margine dell’Assemblea generale Onu, è stato il turno dell’incontro tra il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, e il vicepresidente cinese Han Zheng. Il capo della diplomazia americana ha confidato di ritenere “positivo aumentare il numero di incontri ad alto livello” tra i due Paesi e che questo tipo di incontri serve a “garantire di mantenere aperte le linee di comunicazione e di dimostrare che stiamo gestendo le relazioni tra i nostri due Paesi in modo responsabile”. Han, dal canto suo, si è augurato che Pechino e Washington possano “incontrarsi a metà strada” per realizzare “le condizioni favorevoli e fare di più per rafforzare la comprensione, la fiducia reciproca e la cooperazione vantaggiosa per entrambi”.

Dalle parole ai fatti la strada non sembra né breve né priva di ostacoli. Basti pensare che nelle stesse ore in cui avvenivano questi incontri l’isola “ribelle” al centro delle tensioni nel Pacifico, e cioè Taiwan, è stata circondata da decine di aerei e navi da guerra cinesi per premere sulle sue autorità.

Ma i summit tra le due superpotenze lasciano intendere che si voglia evitare una pericolosa escalation tra le due parti, che ora devono gestire anche il nodo Russia. Anche su questo capitolo, la Cina sembra intenzionata ad accelerare la sua strategia diplomatica.

Dopo che le autorità di Pechino hanno ricevuto l’inviato del Papa per la pace, il cardinale Matteo Maria Zuppi, e dopo che Wang Yi ha incontrato Sullivan, lo stesso ministro degli Esteri del gigante asiatico si è recato a San Pietroburgo, dove è stato ricevuto dal padrone di casa Vladimir Putin. Nell’incontro tra i due, il capo del Cremlino ha sostenuto il grande interesse per la Via della Seta, che a suo dire è in linea con il progetto russo per la nascita di un vasto “spazio euroasiatico”. Ma le parole dello zar, ripulite da una certa dose di toni propagandistici, certificano anche la chiara adesione della Federazione Russa a un piano, quello della Via della Seta, che è chiaramente il frutto di una strategia di Pechino e in particolare di Xi, non certo un progetto congiunto tra i due Stati.

La conferma della sempre più stringente sinergia tra Cina e Russia sul fronte del progetto strategico targato Pechino è poi testimoniata da una decisione dall’alto valore simbolico: durante l’incontro con Wang, Putin ha accettato l’invito da parte di Xi di recarsi nella capitale cinese al Forum della Via della Seta a ottobre. Per il presidente russo, molto restio a lasciare il proprio Paese, si tratterebbe della prima visita in Cina dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. L’ultimo viaggio del 4 febbraio 2022 fu seguito da una dichiarazione congiunta che sanciva l’inizio di una “nuova era” nelle relazioni tra le due potenze. E nello stesso documento era sottolineato quel concetto di “amicizia senza limiti” che ha poi contraddistinto i rapporti tra i due Stati.

È probabile che nell’incontro di ottobre Xi voglia dei chiarimenti da parte di Putin sia sugli accordi con Kim Jong-un sia sull’andamento della guerra in Ucraina. Pechino ha una posizione neutrale. Ma a grazie al suo forte ascendente su Mosca, è vista dall’Occidente come un interlocutore indispensabile per mediare tra le parti.

Lorenzo Vita

Autore