È altamente improbabile che Donald Trump sappia chi sia Tomasi di Lampedusa. Ma cambiare tutto perché nulla cambi sembra essere il risultato di questo mese rocambolesco di diplomazia. Il mese era cominciato a Città del Vaticano ai funerali di Papa Francesco il 26 aprile con l’ormai iconico tête-à-tête fra il Presidente americano e quello ucraino Zelensky all’interno di San Pietro. È continuato a Kyiv con il viaggio dei cosiddetti “volenterosi” europei. È naufragato ad Istanbul in negoziati fra le parti che non sono mai partiti. Si è concluso tragicamente con gli ennesimi attacchi russi di questo weekend. A parte lo straziante scambio di prigionieri, il risultato è un sostanziale nulla di fatto e dobbiamo prepararci ad una guerra ancora lunga, che la Russia non ha nessuna intenzione di concludere.

La matassa che non sa sbrogliare

Eppure i paletti si erano spostati in punti fino a sei mesi fa impensabili. Il primo, ormai palese, è che gli Stati Uniti non solo hanno abbandonato il sostegno all’Ucraina ma ora anche una qualsiasi velleità di negoziare una tregua, che è forse la conclusione principale della girandola di questo mese. Dopo il colloquio telefonico con Putin la scorsa settimana, questo è per grosse linee quanto Trump sembra aver fatto trapelare al Gruppo dei volenterosi. Al netto del melodramma sull’accordo delle terre rare ucraine, gli Stati Uniti si stanno evidentemente sfilando da una matassa che non sono in grado di sbrogliare.

Il pacchetto di sanzioni

Questo lascia noi europei con altri paletti conficcati in punti piuttosto impervi. Il piano Rearm (o Readiness) sta a tutti gli effetti entrando nelle logiche anche di bilancio della strategia europea, con tutto ciò che ne consegue in termini di complessi negoziati interni. Il diciassettesimo pacchetto di sanzioni approvato la scorsa settimana, seppur lodevole dal punto di vista dell’unità, dimostra invece la crescente inadeguatezza di questo strumento. Possiamo bloccare la “flotta ombra” russa, ma Mosca si è ormai convertita in un’economia di guerra e sembra assorbire perfettamente l’urto delle sanzioni. L’Europa non è considerata un interlocutore credibile da Mosca (e questo si sapeva) né tantomeno un “ponte” da Washington (vedasi il rilancio di Trump sui dazi). Rimaniamo così nel guado del sostegno militare a Kyiv sine die, irreprensibile da un punto di vista morale ma difficilmente sostenibile senza copertura americana.

Il prezzo della guerra

Quelli che pagano il prezzo più alto sono come sempre gli ucraini. La guerra continua ad infliggere sofferenze indicibili alla popolazione civile, di nuovo in questo fine settimana di raid fra i più intensi e violenti in questi oltre tre anni di guerra. I più cinici fra i pacifisti nostrani non ce ne vogliano, ma come ha scritto lo storico Timothy Garton Ash: “nessuno più degli ucraini vuole la pace.” Il punto è che accettare le condizioni non negoziabili russe, fra le quali la cessione delle quattro province orientali che le truppe di Mosca non hanno mai completamente occupato, sarebbe come acconsentire al suicidio assistito e la garanzia che la guerra cominciata nel 2014 vada avanti almeno altri dieci anni.

I russi lo sanno

Dopotutto, è stato proprio questo il messaggio di Vladimir Medinsky, il capo della delegazione del Cremlino arrivata ad Istanbul per gli pseudo-negoziati. Nel diciottesimo secolo, la Russia combatté contro gli svedesi per 21 anni nella Grande Guerra del Nord (1700-1721) fino ad averne ragione. Quindi gli ucraini possono abbandonare ogni speranza di un compromesso a breve. Si è sempre detto che da Napoleone a Hitler il “Generale inverno” e gli spazi sconfinati siano le armi russe più brutali ed efficaci. Medinsky ci ha ricordato che la Russia ha storicamente anche dalla sua un margine di sopportazione e una dimensione temporale che esulano da scadenze elettorali e malumori della popolazione. È molto probabile che i russi sappiano perfettamente chi sia Tomasi di Lampedusa e che questo mese sciagurato sia trascorso esattamente come loro auspicavano.