Il primato delle nuove tecnologie
Trump investe 500 miliardi nell’intelligenza artificiale mentre l’Europa è paralizzata dai dubbi: teme l’essere umano e i suoi strumenti
Nell’agenda del nuovo presidente le nuove tecnologie sono una priorità per recuperare la centralità Usa. Mentre la Ue si trincera dietro all’iper-regolamentazione

Le prime azioni di Donald Trump hanno l’effetto di un evidenziatore. Sono così veloci e mirate da far risaltare l’immobilismo europeo. Tre esempi su tutti. Noi in 30 anni non abbiamo ancora deciso se l’immigrazione illegale sia un reato o una necessità umanitaria, e lui dispone un rimpatrio di massa. Noi discettiamo da 40 anni di presidenzialismo, e lui vara 100 decreti esecutivi in due giorni. Noi sull’intelligenza artificiale siamo paralizzati dai dubbi, e lui annuncia alleanze strategiche con tutte le Big tech e 500 miliardi di investimenti.
Quest’ultimo punto è dirimente. Trump sembra aver chiaro un punto-chiave: il primato nelle nuove tecnologie non è solo potere economico, è soprattutto libertà di azione sullo scenario mondiale. E il binomio vincente è quello fra social media e intelligenza generativa. È questo il trait d’union fra gli investimenti sull’IA e l’idea che Elon Musk acquisisca anche il cinese TikTok. Chi pensa a chissà quali strategie di manipolazione del consenso si sbaglia: il trumpismo non è una dittatura, anche se potrebbe sfociare rapidamente in una post-democrazia di segno illiberale. Per ora è soprattutto una pesante scommessa sul recupero della centralità americana nel mondo. Contro la Cina, la Russia, i paesi arabi e anche l’Europa. E per questo obiettivo serve guidare la corsa all’innovazione.
Andare per primi su Marte, in senso più figurato che reale. Le paure europee rispetto all’IA, in questa chiave, sono un fattore di debolezza micidiale. Specie se unite ad una vocazione passatista che, ad esempio, porta al pregiudizio ideologico contro le fusioni e ogni altra forma di rafforzamento del sistema industriale. Come se l’Europa fosse ancora al centro del mondo e potesse permettersi di ragionare in termini di angusti recinti nazionali. Quindi, mentre Usa e Cina si contendono lo scettro dei driver del nuovo ecosistema tecnologico, l’Europa si gingilla con le sue iper-regolazioni, infarcite dei famigerati “considerando che”.
Non considerando, invece, due semplici elementi. Il primo è che l’evoluzione dei software è infinitamente più veloce delle norme che mirano ad arginarli, e che quindi se mai servirebbe un piano di formazione intensiva per imparare a gestirli. Il secondo è che nell’epoca moderna le imprese e i consumatori si muovono secondo direttrici di utilità: così come ormai da decenni scambiano dati personali in cambio di servizi – sui social, ma anche su Google o Amazon – così faranno con piattaforme che garantiscono un salto di qualità enorme nella gestione di funzioni ripetitive, nei servizi o nell’assistenza ai clienti. Ma nelle paure europee rispetto all’intelligenza artificiale c’è anche un sottofondo di sfiducia nell’agire umano, estraneo alla mentalità Usa che da sempre è intrecciata con sogni e nuove frontiere da superare. Noi parliamo dei social e dell’IA come di potenti nemici esterni. Ma sui social non ci sono che le persone, con le loro idee e le loro allucinazioni.
È esattamente lo stesso popolo che anima la vita quotidiana e poi va a votare. E riguardo all’IA, i software li creiamo noi, operano sulla base delle nozioni che noi alimentiamo (“il grande jpeg del web” di cui parla padre Benanti) e siamo sempre noi che li alleniamo a diventare sempre più efficienti. Quindi gli anatemi verso l’IA – le macchine ci sostituiranno, ci prevaricheranno, ci abitueranno a non distinguere più il vero dal falso – rivelano una particolare sindrome che possiamo defi nire “paura di noi stessi”. Di quello che possiamo fare e soprattutto di quello che non siamo in grado di risolvere. Un complesso che ci rende davvero un “vecchio” continente destinato a rincorrere. Anche perché ci ostiniamo far predicare nel deserto le nostre voci migliori. Come quella di Draghi che, solo pochi mesi fa, esortava l’Unione a fare tre cose: intensifi care gli investimenti in ricerca e sviluppo per ridurre il gap tecnologico rispetto a Stati Uniti e Cina, investire il 5% del pil europeo nella transizione ecologica e digitale, rafforzare la difesa comune. Oggi il diktat di Trump è che il 5% lo dobbiamo spendere per la Nato, le dipendenze se le ridurrà lui da solo con i dazi e sul digitale neppure ci considera.
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