“Rimaniamo completamente impegnati alla vittoria dell’Ucraina”, ha dichiarato Segretario di stato americano Antony Blinken a Kiev la scorsa settimana. È il grande quesito irrisolto della guerra, che ormai da quasi tre anni (o dieci se si considera l’inizio nel 2014) si consuma in Ucraina. Ma parafrasando il Canto degli italiani: dov’è la vittoria e soprattutto, quando? Il dibattito italiano e occidentale su questo conflitto continua ad essere caratterizzato da un manicheismo esasperato e dalla necessità di tenere alta l’attenzione pubblica. Imperativi che però non aiutano a individuare gli ostacoli che impediscono la fine del conflitto e con quali tempi superarli.

Il primo è che, al netto di exploit come l’incursione ucraina nel Kursk russo di questa estate, quella russo-ucraina è una logorante guerra di attrito. La trincea ha richiesto un impegno immane in termini di risorse umane e militari che l’Ucraina deve, per le seconde, in larga parte alla lungimiranza (o meno) degli Stati Uniti e dell’Europa. L’ultimo pacchetto militare americano, di 60 miliardi di dollari approvato ad aprile, ha seguito un iter tribolato che è difficile immaginare ripetersi a breve, a prescindere da chi vincerà le elezioni a novembre. C’è poi un lasso temporale significativo fra gli annunci che vengono fatti e l’effettivo arrivo di aiuti. Americani e inglesi nel fine settimana hanno discusso il via libera alla richiesta di Kiev di usare missili di loro fabbricazione in territorio russo, in risposta alla fornitura iraniana di missili alla Russia. La posizione di Mosca, prevedibile e temuta, è che tale decisione costituirebbe un allargamento del conflitto alla NATO.

Il presidente ucraino Zelensky in visita a Cernobbio ad inizio mese ha posto l’accento sui termini di una pace che, ha promesso, presenterà presto al governo degli Stati Uniti e ad entrambi i candidati alla presidenza. La formula della pace ucraina finora comprendeva invariabilmente il ritiro completo delle truppe russe, il ripristino dell’integrità territoriale del paese ai confini del 1991 (inclusa quindi la Crimea) e garanzie alla sicurezza ucraina che, al netto un improbabile invito nella NATO, potranno solo venire da accordi bilaterali con paesi occidentali. Princìpi che rimarrebbero irricevibili da Mosca. Qui occorre ricordare che la Russia si è trasformata a tutti gli effetti in un’economia di guerra che riesce a produrre armamenti e a raggirare sanzioni senza soluzione di continuità. Anche se non necessariamente stabile la tenuta del regime di Putin è solida, come hanno ammesso a malincuore i direttori della CIA e dell’MI6 inglese. Se il nostro problema è che il tempo è tiranno, il tiranno del Cremlino non deve far altro che aspettare.

Infine la ricostruzione dell’Ucraina, paese che ha perso forse mezzo milione di uomini nella guerra più altri dieci milioni che sono emigrati, è politicamente e materialmente affidata all’Europa. Quantificata dal governo ucraino in mille miliardi di euro, la ricostruzione si intreccia all’impegno preso da Bruxelles di integrare Kiev nell’Unione europea. Il progetto potrebbe durare un altro decennio, richiederà investimenti ingenti e cambiamenti importanti all’assetto istituzionale dell’Unione. L’opposizione di alcuni paesi a partire dall’Ungheria è una spada di Damocle da cui l’Europa non potrà divincolarsi con oscure manovre tecnocratiche, ma solo tenendo dritta la barra politica e strategica.

Questo prima di tutto per rispetto ai civili ucraini sotto quotidiano bombardamento dei russi. Ma anche per una ragione più inquietante: in questo lungo anno di elezioni globali, è solo nelle democrazie che le elezioni comportano il rischio concreto di un cambio di rotta. Non è un messaggio facile da far passare all’opinione pubblica in un contesto mediatico che si presta a semplificazioni apocalittiche. Ma il trilemma fra logoramento, congelamento o allargamento del conflitto continuerà a rimanere irrisolto per parecchio tempo. Soluzioni binarie non sono al momento alla portata di nessuno. In questo caldo autunno di cambiamenti ai vertici americani ed europei, quando non si intravedono i contorni della fine né a livello temporale né di contenuti, la virtù più difficile e necessaria è la perseveranza.