Avverto le passioni, antiche e nuove, che ancora ribollono e si addensano intorno alla figura di Umberto. E ho capito quanto grande fosse, ed è, l’affetto nei confronti di questo nostro caro compagno. Ed uso questa parola a proposito. Una parola, compagno, che per noi ha avuto un significato politico e sentimentale enorme. Una parola che Umberto usava con grande rispetto e importanza. Una parola che per lui attribuiva dignità all’interlocutore, lo portava all’interno di un discorso i cui presupposti erano la condivisione di alcuni valori.

Mi rendo conto che oggi quella parola ha perso valore. Non siamo più compagni, ma individui che cercano faticosamente di ridare un senso al proprio impegno. Ecco perché ricordando Umberto parliamo anche di noi. E credo che nell’adesione spontanea e forte a questa iniziativa ci sia anche l’intreccio di tante storie personali, del desiderio di condividere un passato vissuto qualche volta pericolosamente, ma sempre con grande entusiasmo e impegno. La vita di Umberto ricorda a ciascuno di noi un pezzo delle nostre vite che hanno avuto esiti diversi, anche allontanandoci, ma che conservano una ineliminabile radice comune.

Umberto è nato e cresciuto in una famiglia modesta, padre operaio e madre casalinga. Ha trovato nell’impegno politico le motivazioni di una crescita intellettuale che lo ha portato ad essere molte cose. Prima di tutto leader politico fin dai tempi del liceo, poi influente dirigente nazionale della Fgci. Claudio Velardi, coetaneo di Umberto negli anni del liceo mi racconta che già in quegli anni si parlava di Umberto per il ruolo che svolgeva nel suo liceo, e soprattutto per il fatto che resisteva. Lo possiamo immaginare con il suo carattere indomito al prepotente predominio delle formazioni extraparlamentari. Riassumerei la personalità di Umberto in 4 aggettivi: entusiasmo, generosità, responsabilità, razionalità.

L’entusiasmo ha contraddistinto la nostra generazione, talvolta forse eccessivo e poco attento, ma capace di costituire una riserva di energia che abbiamo investito senza risparmio. Nella su vita di militante, dirigente, uomo d’azienda, polemista, evangelista dell’energia nucleare, Umberto ha sempre sposato fino in fondo la causa a cui si era dedicato senza riserve. C’era persino qualche cosa di ingenuo nel suo atteggiamento, un fidarsi a prescindere e comunque mai dettato dal cinismo o dal calcolo. La sua generosità ne era la conseguenza e consisteva nella convinzione e nella fiducia di potere sempre persuadere l’altro. Me lo ricordo in un incontro con Bersani, allora segretario del partito, per indurlo a modificare la sua posizione sul nucleare. Gli avevamo detto “Umbè, ma che ci andiamo a fare? Quello ha già deciso come schierare il partito al referendum”. Ci andammo per accontentarlo. Ma lui credeva nella buona fede.

Responsabilità. Parola diventata quasi impronunciabile in una situazione, quella attuale, in cui troppi leader politici hanno fatto del populismo, anche quando a parole si dichiarano contro, la loro cifra politica. Umberto non si è mai preoccupato di andare controcorrente quando capiva che la demagogia, il desiderio di piacere ad ogni costo, portava a proposte e atteggiamenti che avrebbero solo procurato danni. L’insegnamento migliore che molti di noi hanno ricevuto dalla storia del partito comunista italiano, pur fra molte discutibili controversie, è stata proprio questa. Riconoscere ed affermare che vi era un interesse nazionale e pubblico che superava le ragioni di partito. Che l’essere parte non poteva mai andare a detrimento dell’interesse collettivo.

Umberto riteneva questi valori non negoziabili. Detestava demagogia e pressappochismo più di ogni altra cosa. Aveva fatto sua fino in fondo la tradizione del riformismo socialista, in un contesto in cui i toni sono stati troppo spesso ben sopra le righe. Ho sempre molti dubbi sulla responsabilità della nostra generazione. Quando osservo il panorama desolante delle istituzioni pubbliche italiane e la qualità della classe politica mi domando quanta responsabilità abbiamo anche noi. Certamente non stiamo lasciando un paese migliore di quello che abbiamo trovato. Più ricco, ma non migliore.

Umberto avvertiva questa situazione e i suoi giudizi erano taglienti. Ma sperava sempre di poter cambiare il corso delle cose. Negli anni era aumentato il suo distacco, il suo scetticismo, il suo disincanto nei confronti di dinamiche in cui aveva sempre riposto molte aspettative. Più aumentava il suo lato razionale, più si rendeva conto di quanto fossero inutilizzabili le categorie della politica. Ma il suo lato razionale doveva trovare un campo di applicazione. Umberto trovava consolazione, ad esempio, nel suo recente amore per la fisica, per le straordinarie dinamiche dell’universo. Era la sua via di fuga, il modo per porsi fuori dalle troppe delusioni della vita pubblica. Revisionista era l’accusa che l’estremismo di sinistra ci rivolgeva. Umberto lo è stato. Non apparteneva alla schiera di coloro che pensano che il mondo sarebbe meglio se fosse andato secondo i loro desideri. Sapeva riconoscere gli errori di una parte politica che, pur avendo contributivo al progresso di questo paese, non ha saputo cogliere le occasioni cruciali.

Amava la libertà più di ogni altra cosa, al punto di dire una volta “per fortuna che nel ’48 abbiamo preso le elezioni e ha vinto De Gasperi”. Oggi siamo abbastanza lontani da quel momento per riconoscere una certa verità in quella affermazione. Aveva aderito con entusiasmo al progetto della fondazione “ottimisti e razionali”. Il disincanto, quell’atteggiamento per cui si osservano le cose un po’ da lontano e senza mai farsi coinvolgere fino in fondo, faceva sicuramente parte del suo approccio negli ultimi anni della sua vita. Ma non si è mai tradotto in distacco o, peggio, ignavia.
Mi piace immaginare decine di conversazioni con Umberto. E tante domande a cui risponderebbe con una delle sue espressioni preferite: “E che me lo domandi a fare? È chiaro come stanno le cose, e cosa bisogna fare”. Il resto sono solo chiacchiere.

Chicco Testa

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