Il commento
Un approccio pragmatico sul tema della competitività europea
Quando a settembre fu presentato il Rapporto Draghi sulla competitività europea, prevalentemente l’attenzione si concentrò sui passaggi relativi: all’esigenza di massimizzare gli sforzi congiunti europei in settori-chiave quale l’Automotive (in particolare attraverso una forte politica industriale in materia di Aiuti di Stato fondata sul ricorso a strumenti fondamentali quali gli IPCEI); all’urgenza di costruire un mercato unico UE dei capitali per attivare investimenti su transizione energetica, difesa e digitale, nell’ottica di una successiva emissione di debito pubblico addizionale congiunto (quest’ultimo inteso – ha chiarito pochi giorni fa il Presidente Draghi – quale spazio fiscale aggiuntivo al quale ricorrere nei periodi di maggiore debolezza della domanda interna, negli ultimi decenni causata dalla scelta di tenere bassi i salari per aumentare così la competitività esterna, ossia l’export europeo).
Nell’analizzare i contenuti del Rapporto Draghi, i commentatori hanno teso a privilegiare tali aspetti, come pure l’importanza attribuita alle strategie per accrescere l’interoperabilità fra aziende europee anche a livello di filiera. Ad un altro dei cardini del Rapporto è stata invece riservata meno attenzione.
Sostiene infatti Draghi che, poiché nel confronto con USA e Cina il recupero della competitività UE risulta connessa all’esigenza di aumentare la nostra produttività, andrebbero considerati compatibili con la disciplina unionale in tema di Concorrenza quelle fusioni (Merger & Acquisition) intereuropee dirette ad aumentare l’Innovazione in ambiti strategici quali in particolare Difesa, Sicurezza e Tlc.
In sostanza, partendo dal presupposto che problemi di resilienza in settori-chiave possono produrre effetti in termini di sicurezza sistemica (ad esempio sul versante degli approvvigionamenti logistici) con ricadute dirette sui prezzi finali e dunque sui consumatori, nel Rapporto si sostiene la necessità di adottare, in sede di valutazione sulle proposte di fusione societaria in determinati ambiti strategici, un approccio interpretativo diretto ad innestare il concetto di Resilienza su quello di Concorrenza, senza modificare la normativa europea in materia concorrenziale e consentendo così operazioni di Merger & Acquisition nei settori Difesa, Sicurezza e Tlc, laddove sia dimostrato che tali operazione siano finalizzate ad aumentare l’Innovazione in ambiti strategici.
Una effettiva crescita della produttività in quei settori potrà infatti essere conseguita in Europa solo permettendo processi di aggregazione tali da far raggiungere la massa critica imprescindibile per il perseguimento di economie di scala e per il recupero del gap in termini d’innovazione tecnologica rispetto ad USA e Cina, non potendosi ignorare oltre il divario determinatosi in pochi decenni.
Idee, queste, con solidi presupposti teorici. Nel suo “Oligopolio e progresso tecnico” pubblicato nel 1956, Paolo Sylos Labini, studiando i grandi players economici statunitensi, evidenziava come questi, dotati di superiore massa critica e capaci di mantenere un costante e crescente vantaggio in termini d’innovazione tecnologica (una decina d’anni dopo sarebbe stata teorizzata la prima legge di Moore), a fronte di una maggiore efficienza discendente da un forte investimento in Ricerca e Sviluppo, fossero inclini ad esercitare un indirizzo per determinare il prezzo di equilibrio.
In tal modo, essi garantivano il profitto a sé stessi ma anche alle aziende più piccole operanti in un dato settore, con un mark-up non eccessivo ma sufficiente a scoraggiare l’ingresso sul mercato di competitors esterni. Le imprese oligopoliste USA attive in ambiti tecnologicamente avanzati, quindi, preservavano l’ecosistema industriale coesistendo con aziende di minori dimensioni senza istituire soffocanti monopoli (com’era invece accaduto coi Robber Barons dell’Ottocento contrastati dallo Sherman Antitrust Act del 1890 e come attualmente accade con le GAFAM e con le altre Big Tech); al contempo, alimentavano il gap fra USA e resto del Mondo.
Ebbene, nel Rapporto Draghi si rintraccia molto del pensiero schumpeteriano di Paolo Sylos Labini circa il nesso esistente fra oligopolio e innovazione tecnologica in ambiti ad elevato valore aggiunto, laddove si sprona l’UE ad adottare un approccio interpretativo pragmatico che, senza necessità di modifiche alla disciplina unionale in materia di Concorrenza, agevoli l’aggregazione di conglomerati industriali intereuropei in ambiti strategici.
Concetti dirompenti in un’Europa nella quale da un lato si sono impedite fusioni come quella tra la francese Alstom e la tedesca Siemens Mobility a quella tra la svedese Ericsson e la finlandese Nokia, mentre per paradosso si consentiva intanto l’ingresso sul mercato europeo (non di rado in assenza di condizioni di reciprocità) a giganti extra-UE operanti su scala globale in posizione assolutamente dominante nelle rispettive filiere.
Nel XXI Secolo, dinanzi ad ecosistemi economici aggressivi quali quello statunitense e quello cinese, l’industria europea potrà farcela se recupererà terreno sul piano della competitività / produttività con l’aggregazione di significativi campioni intereuropei. Altrimenti, ci attende un destino da colonie.
Valerio Marinelli – Specialista affari istituzionali e legislativi nazionali
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