Venerdi sera, 29 settembre, stavamo per andare a dormire, ma ci siamo ritrovati attoniti (o meglio, gli esperti di Balcani non erano stupiti, ma il resto dell’Europa sì): la Serbia stava spostando truppe con carri armati al confine con il Kosovo. La situazione è decisamente degenerata, tanto che perfino gli Stati Uniti, che per mesi non hanno proferito parola contro l’atteggiamento serbo, hanno finalmente trovato parole chiare minacciando sanzioni contro il presidente Vučić. Il rischio concreto di una guerra (oppure di un’ “operazione speciale”) ormai c’è. Ma, ancor peggio, e penso che questo sia stato quello che ha fatto scattare l’allarme per molti, è la somiglianza con il metodo russo utilizzato contro l’Ucraina (e ai tempi di Milošević). In poche parole, cioè, sembrava di rivivere l’invasione Ucraina: stessi modi, stesse azioni. 

Per mesi c’è stato silenzio, sia a Bruxelles che a Washington. Non si è voluto affrontare il problema del regime autoritario di Vučić, pensando che si sarebbe potuto risolvere con promesse di integrazione europea o con altri modi. Eppure, questo appeasement lo ha solo rafforzato e reso ancora più arrogante. Dimostrazione pratica che c’è bisogno di un nuovo approccio, non solo per quanto riguarda il Kosovo, ma per tutta la politica di allargamento. 

Adesso le truppe serbe sono al confine. La NATO ne ha mandate ulteriori. Al momento non si muove nulla, ma siamo sul filo del rasoio, una mossa sbagliata e tutto può deflagrare (i Balcani: l’eterna polveriera?). Il primo ministro kosovaro Albin Kurti aveva avvertito del pericolo. L’Occidente, forse per arroganza, forse per paura, non ha voluto ascoltare le sue parole. Dobbiamo capire la situazione e non solo la sua gravità.È indicativo, ad esempio, che l’ambasciata russa in Canada abbia, in queste ore, pubblicato un post „il Kosovo è Serbia“. Dice tutto. Il coinvolgimento russo ormai è evidente – non è un caso che le tensioni siano scoppiate quasi contemporaneamente nel Nagorno-Karabakh e nel Kosovo. 

Diversi diplomatici si sono espressi, in tono abbastanza forte contro la Serbia, per dire che le sue truppe dovranno essere ritirate il prima possibile. Soprattutto la Germania ha cambiato tono di voce. E questo è un segnale importante. Ma è un risveglio lento – in questi mesi in tante occasioni si sarebbe potuti intervenire.

Boban Bogdanović è un politico dell’opposizione serba in Serbia, da sempre impegnato per il riconoscimento del Kosovo e il rispetto dei diritti delle minoranze. È anche il primo politico che ha dato prove concrete della responsabilità dell’attacco terroristico da parte di Milan Radoičić (vicepresidente della lista serba nel Nord del Kosovo e strettamente collegato a Vučić) e del governo serbo. Per questo ora Bogdanović è sotto attacco dal governo (già prima lo era, ma ora le minacce sono aumentate). Secondo lui, Radoičić dovrebbe essere catturato con un mandato internazionale per terrorismo, perché se fossero istituzioni internazionali a interrogarlo, confesserebbe tutto.

Ci sono tante domande aperte: se la Serbia ha davvero il supporto della Russia (cosa alquanto scontata), quale sarà il prossimo passo o addirittura il prossimo target? Che cosa possono fare l’Unione europea e gli Stati Uniti per proteggere il Kosovo? E come evitare il conflitto militare diretto?

Tutte domande che potranno avere una risposta solo nelle prossime settimane, e tutte domande che dipendono fortemente dalle decisioni che prenderà l’Unione europea (per cui la Serbia è uno Stato candidato che sta negoziando la sua adesione). Se l’UE sarà in grado di capire che vanno tolte la sanzioni al Kosovo e imposte invece alla Serbia, e vanno sospese i negoziati per l’accesso all’Unione europea della Serbia, ci sarà la possibilità di un ritorno graduale alla normalità. Se però l’Unione europea continuerà con il suo approccio parziale, a mio avviso non ci sarà modo di fermare un conflitto imminente e pericolosissimo per tutta la regione (e l‘Europa). 

È notizia delle ultime ore, di questa domenica 1 ottobre, che la Serbia ha deciso di ritirare alcune delle truppe poste al confine con il Kosovo. Dimostrazione che il presidente serbo ha una tattica ben precisa in mente – destabilizzare. 

Ho cominciato questa rubrica per far conoscere i Balcani e per poter informare su quello che succede. Mi rendo conto di aver parlato tanto del Kosovo e della Serbia e meno di altri paesi; ma la connessione fra questi paesi è molto forte, ancora oggi, e si condizionano a vicenda. Ciò che sta succedendo in questi giorni in Kosovo ha un’importanza cruciale ad esempio per la Bosnia-Erzegovina, che rischia di trovarsi nella stessa situazione – e di essere ulteriormente destabilizzata da questi avvenimenti.

Il futuro del Kosovo è fondamentale per la regione. Un paese piccolo, giovane, che però ha uno sviluppo democratico forte e che ha il maggior supporto della popolazione per l’accesso all’Unione europea. Un paese che può fare da avanguardia per il resto della regione, per determinati temi ed ambiti.

L’Unione Europea si trova ad un bivio e deve decidere: supportare un paese democratico, che vuole favorire lo stato di diritto e la democrazia, con un leader come Albin Kurti, che tramite la propria esperienza personale sa benissimo come trattare con la Serbia, oppure un paese alla deriva autocratica, con un leader come Vučić, che era ministro della propaganda di Milošević e ancora oggi continua con le sue provocazioni?

Sembra una scelta ovvia, ma per motivi geopolitici la risposta fino ad ora è stata diversa da quanto ci si poteva aspettare. Dopo gli eventi di questo fine settimana la scelta diventa obbligata. Gli Stati Uniti hanno già capito il pericolo che pone la Serbia; l’Unione Europea lo capirà, speriamo al più presto. 

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Nata a Trento, laureata in Scienze Politiche all’Universitá di Innsbruck, ho due master in Studi Europei (Freie Universität Berlin e College of Europe Natolin) con una specializzazione in Storia europea e una tesi di laurea sui crimini di guerra ed elaborazione del passato in Germania e in Bosnia ed Erzegovina. Sono appassionata dei Balcani e della Bosnia ed Erzegovina in particolare, dove ho vissuto sei mesi e anche imparato il bosniaco.