“Per essere rider bisogna armarsi di tanta pazienza. È questa la parte peggiore del lavoro, e dopo 4 ore al freddo ad aspettare puoi anche tornare a casa a mani vuote. E succede sempre più spesso”. È questo che racconta Salvatore, 33 anni, rider da 4 anni. Il Riformista ha passato un venerdì sera insieme ai riders di Napoli di turno nella zona del Vomero. Ma con stupore abbiamo scoperto che non è un continuo salire e scendere dal motorino, ritirare e consegnare cibo ai clienti ma una lunga ed estenuante attesa sperando in una chiamata che spesso non arriva mai.

La vita del rider è diventata così, all’inizio era un continuo viavai di ordinazioni e consegne. “Si riusciva ad arrivare a guadagnare anche 1.200 euro al mese. Eravamo una flotta di 80 persone ora ne siamo almeno 400: il numero delle richieste è sempre lo stesso ma dobbiamo dividerle tra tanti e quindi si rischia di rimanere fermi”, racconta Lorenzo, 31 anni, rider da tre anni. E quindi si aspetta.

Vita da rider

“Ormai tra i rider si trova davvero di tutto. Non è più un mestiere da ragazzi – racconta Francesco, 59 anni, anche lui rider – Ci sono anche signori di 60 anni che scendono la sera con le mogli per guadagnare qualche centinaia di euro. Con il covid molti di quelli che hanno dovuto chiudere le loro attività si sono messi a fare i rider perché attualmente è l’unico lavoro che ti permette di guadagnare qualcosina”. C’è anche chi è campione di pallanuoto ma il campionato è fermo e le piscine chiuse per cui bisogna inventarsi qualcosa.

Ma le condizioni di lavoro sono estenuanti e peggiorano sempre di più con l’aumento delle persone impiegate. Se piove o se fa caldo, i rider sfrecciano di qua e di là. “A gennaio ho speso più soldi per riparare il motorino rispetto a quanti ne ho guadagnati. Le strade a Napoli sono pessime e il mezzo si rompe spesso”, dice Lorenzo, 25 anni che vorrebbe fare l’autista. “Succede anche che ti chiamino per una consegna e all’indirizzo di destinazione trovi chi vuole solo rubarti il motorino”, continua Lorenzo. “Se ti ammali poi stai a casa e non guadagni. Io ho due figli, cosa dovrei fare? – chiosa Salvatore – C’è l’assicurazione infortunio nel momento in cui faccio un incidente, mi spezzo un braccio, l’assicurazione copre il danno al braccio ma i giorni che sto costretto a casa non vengono compensati”.

Il cliente nel momento in cui ordina per esempio da Just Eat può sia pagare online con carta oppure in contanti fino a un massimo di 50 euro. “Se pagano con carta noi riders non maneggiamo soldi, avviene tutto automaticamente tra cliente e ristorante – spiega Lorenzo – Quando il pagamento è in contanti invece siamo noi a dover anticipare al cliente di tasca nostra che poi ci consegnerà i soldi al momento della consegna a domicilio”.

Il bluff del contratto collettivo nazionale peri i riders

Passiamo la serata con il gruppo di riders, quelli della flotta di Just Eat, quelli balzati alle cronache come i “fortunati” che sono riusciti ad ottenere il contratto. E inaspettatamente scopriamo che i riders lo ritengono uno svantaggio più che una conquista. Il contratto non è ancora in essere, i riders hanno solo ricevuto una comunicazione che a breve sarà rescisso il contratto da libero professionisti e diventeranno dipendenti. “Hanno firmato un contratto nazionale in cui se prima guadagnavamo 7 euro a consegna ora ne guadagni 5. Una bella battaglia per farci guadagnare in un mese quello che prima guadagnavamo in una settimana – spiega Salvatore – sarò costretto a mollare perché non mi converrà più”.

Il motivo lo spiegano durante le ore di attesa assiepati in piazza in attesa di una chiamata. “Avendo assunto tutti questi riders come collaboratori occasionali ora l’azienda è costretta ad assumerli e quindi non riesce a garantire un monte ore di lavoro di 40 o 50 ore settimanali per guadagnare uno stipendio decente. Così ti garantisce soltanto 10 ore settimanali, quindi parliamo di uno stipendio misero”, spiega Salvatore che è il più arrabbiato per questa novità. Lavora come rider da 4 anni e non gli è mai stata riconosciuta nemmeno una sorta di anzianità o riconoscenza per i sacrifici fatti.

Il contratto prevederebbe maggiori diritti come la malattia. “Ho letto che i primi 3 giorni ti sono pagati, dal quarto in poi prendi il 50% della tua paga. Forse se ci facciamo male sul lavoro avremo diritto a un pochino di tutela in più”, continua Salvatore.

Poi c’è la questione dell’esclusiva: se prima i riders a lavoro potevano connettersi a varie piattaforme durante lo stesso turno di lavoro, il contratto pretenderà l’esclusiva.Non puoi nemmeno incrementare i tuoi guadagni facendo qualche altra cosa”. E non c’è nemmeno l’opportunità di rifiutare le consegne.

La lotta dei riders per accaparrarsi il turno

Una delle peculiarità del lavoro del rider è trascorrere il tempo ad aggiornare l’applicazione dove vengono pubblicati i turni. “Devi essere più veloce degli altri per trovarne uno – racconta Lorenzo – E non sempre ci riesci. C’è anche chi ha inventato un bot per accaparrarsi automaticamente il turno appena esce. È una guerra continua”. Ed è questo il motivo per cui in strada si incontrano centinaia di riders con il capo chino e lo smartphone in mano. Si radunano in gruppi e aspettano così almeno l’attesta tra una chiacchiera e l’altra passa prima.

In 4 ore nessuna chiamata per i riders

In un venerdì sera di zona rossa in un turno di 4 ore Lorenzo ha totalizzato zero chiamate e zero euro. Christian, 22 anni programmatore di giorno e riders di notte, ne ha avuta una sola e torna a casa con 5 euro in tasca e tanto freddo addosso. Massimo invece una chiamata l’ha avuta: “Ho guadagnato 7 euro in 4 ore, e questo è”, dice. Non è andata meglio ai colleghi del centro storico o di altre parti di Napoli. Su 20 riders solo uno porta a casa due consegne fatte. “Tanta gente pensa che con la pandemia ci stiamo arricchendo, ma non è affatto così”, conclude amaro Lorenzo.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.