Il sistema istituzionale italiano difetta, senza alcun dubbio, della stabilità: 68 governi in 76 anni di Repubblica ne sono la prova inconfutabile. Il confronto con le democrazie parlamentari europee è impietoso. Ma la loro stabilità non dipende affatto dall’elezione diretta (mai esistita da nessuna parte, salvo per pochi anni in Israele), ma dal corredo di poteri di cui dispone il premier. Come ho esaminato più compiutamente nell’articolo scritto per la rivista Civiltà Socialista, la questione di fondo (anche se non l’unica) è costituita dal potere di scioglimento del Parlamento (rectius della Camera politica sede del rapporto fiduciario che altrove è una sola). Le discipline sono relativamente diverse ma consentono comunque al premier di minacciare il ricorso alle elezioni anticipate, uno strumento di deterrenza fondamentale per governare i conflitti e la competizione di potere all’interno dell’esecutivo e della maggioranza, a maggior ragione con un sistema politico basato su coalizioni frammentate e spesso litigiose.

Il testo del governo prevede l’elezione diretta del premier (anzi del Presidente del Consiglio come semplice primus inter pares) ma senza minimamente dotarlo di adeguati poteri, in particolare quello dello scioglimento. Avremmo un’elezione inutilmente diretta, che oltretutto creerebbe una grave disfunzione istituzionale perché andrebbe a intaccare la fonte di legittimità del Presidente della Repubblica e quindi il suo ruolo di garanzia. Insomma, avremmo un sistema istituzionale non equilibrato, con una inaccettabile scissione tra potere e responsabilità che per il costituzionalismo liberale devono invece sempre andare di pari passo. Il testo del governo rischia addirittura di trasformarsi in un pasticcio abnorme, quasi una barzelletta, con l’ultima modifica apportata dal Consiglio dei ministri alla cosiddetta norma anti-ribaltone: il cambio del premier – con lo stesso programma e con un eletto nelle liste della maggioranza – potrebbe avvenire una volta sola per legislatura, con la conseguenza paradossale che a disporre del potere di scioglimento non sarebbe il premier eletto direttamente, ma il suo sostituto! Solo il secondo premier sarebbe stabile, perché solo per lui varrebbe la regola del simul stabunt simul cadent, in vigore per comuni e regioni! (Una norma analoga fu approvata nel 2003 dal Consiglio regionale della Calabria, inducendo alcune forze politiche, prima che la legge regionale fosse bocciata dalla Corte costituzionale per contrasto con l’articolo 122 della Costituzione, a preferire la candidatura a Vice-Presidente della Regione, anziché a quella di Presidente!). Con questa norma “anti-ribaltone”, il premier eletto direttamente sarebbe subito esposto ad una ferocia guerra di logoramento da parte di chi in seno alla maggioranza ambisce alla successione alla premiership. E potremmo anche avere una singolare riedizione del famoso “patto della staffetta” (che nella “prima repubblica” almeno non fu il frutto di una norma costituzionale). C’è allora seriamente da chiedersi: perché in luogo di una riforma così pasticciata, inutile se non dannosa, non scegliere una forma di governo in cui il premier è “solo” indicato da ciascuno schieramento prima del voto (eventualmente anche riportando il nome sulla scheda elettorale), ma dispone di poteri adeguati per la stabilità e la governabilità?

Per quanto riguarda il potere di scioglimento si possono adottare diverse discipline. In Germania è soprattutto l’art. 68 della Costituzione (e non l’art. 67 sulla sfiducia costruttiva, utilizzata una volta sola) ad assicurare la stabilità di governo. Esso prevede che il cancelliere, in caso di bocciatura della questione di fiducia, possa chiedere e ottenere lo scioglimento, salvo la successiva approvazione di una mozione di sfiducia costruttiva a maggioranza assoluta. Pertanto il cancelliere può anche minacciare lo scioglimento ai fini della governabilità (come fece, ad esempio, Schröder inducendo i Verdi, inizialmente contrari, a votare a favore della missione in Afghanistan dopo l’11 settembre 2001). In Spagna la disciplina è prevista dagli articoli 113, 114 e 115. Se il Presidente del Governo chiede lo scioglimento esso “sarà decretato dal Re”. Solo se in precedenza è stata presentata una mozione di sfiducia costruttiva, questa deve essere votata inibendo la possibilità di richiedere lo scioglimento. Il prof. Enzo Cheli, durante l’audizione presso la Commissione Bicamerale D’Alema (20 marzo 1997) indicò la disciplina svedese come quella dotata di maggiore forza deterrente, prevedendo che il premier, se sfiduciato, anche costruttivamente, possa poi decidere se sciogliere o passare la mano, consentendo pertanto anche il necessario grado di flessibilità.

Insomma, la strada maestra è quella di dotare il premier di un adeguato corredo di poteri, tra cui è fondamentale quello di scioglimento (secondo una disciplina mutuata da quelle delle altre democrazie europee), ma si deve poi lasciare il resto alla politica, senza pensare di poterle mettere le brache ingessando il sistema con singolari ortopedie costituzionali come la norma “antiribaltone” che sarebbe controproducente. Il sistema istituzionale non è uno stoccafisso! Mi auguro che, a fronte di una proposta del governo così pasticciata, Italia Viva e tutte le forze e componenti riformiste vogliano imboccare questa strada. Matteo Renzi potrebbe essere, questa volta, l’artefice di una riforma condivisa di cui l’Italia ha bisogno. Eviteremmo così il rischio che sembra incombere a seguito della proposta del premierato elettivo da parte del governo e dell’abbandono di ogni proposta riformista da parte della segreteria del Pd (a partire dalla tesi n. 1 dell’Ulivo del 1996 e dal testo Salvi sul premierato alla Commissione bicamerale D’Alema): cioè il rischio di uno scontro insensato tra innovatori-sgangherati-apprendisti stregoni e conservatori-difensori della “Costituzione più bella del mondo”.