L'editoriale
“Vie di uscita dal confino”, la ripartenza spirituale come soluzione post-Covid
Tra le riflessioni meno effimere e più intense scaturite dalla recente pandemia, quella siglata da Carlo Ossola nel suo ultimo volumetto, Per domani ancora. Vie di uscita dal confino (Olschki, pp. 78, 10 euro), annuncia sin dal titolo la necessità ineludibile di una ripartenza spirituale, sganciata da ogni semplice accorgimento precettistico: magari potessimo cavarcela tenendoci a distanza l’uno dall’altro! Quello che è successo ha fatto scricchiolare i fondamenti culturali delle società moderne. In realtà, dato per scontato lo scrupolo sanitario, dovremmo tornare a ripensare allo scossone ricevuto dalla civiltà occidentale: da lungo tempo non venivamo chiamati a una resa dei conti così ultimativa, lanciati com’eravamo a tutta forza verso la deflagrazione del desiderio che la rivoluzione tecnologica ha determinato in ognuno di noi.
Chiamiamolo il sogno d’onnipotenza dell’era digitale: secondo alcuni scellerato, per altri inebriante. È bastata qualche disattenzione nel mercato di Wuhan per mettere in ginocchio l’economia planetaria e smontare la boria collettiva. Pochi forse potevano meglio registrare le conseguenze più profonde di questa crisi di certezze come il nostro insigne italianista, da anni docente di letteratura moderna dell’Europa neolatina al Collège de France di Parigi, il quale prende originalmente spunto dalle tre celebri prospettive rinascimentali di autore ignoto presenti nelle tavole di Urbino (Galleria Nazionale delle Marche), Baltimora (Walters Art Museum) e Berlino (Gemäldegalerie) per introdurre, insieme alla ragionata cronaca della forzata immobilità primaverile, quattro illuminanti consigli d’autore su classici da rileggere e dodici indicazioni di “virtù minime” da praticare.
Confessiamolo: è stato difficile trattenere un piccolo brivido di terrore contemplando le famose “città ideali” pressoché desertificate nello schema fisso dell’inquadramento geometrico umanistico: i templi sotto il cielo di vernice azzurra, i palazzi quasi di ghiaccio e il magico porticato sullo sfondo del mare lontano, non possono non richiamare alla mente i centri urbani recentemente svuotati dal Covid-19. Ed è proprio sulla scorta di questo severo monito che Ossola, segnalando “la fine del mito dell’uomo ‘ubiquitario’”, recupera le antiche nostre radici identitarie, troppo spesso sradicate e indebolite da agenti patogeni e cinici sovranismi: Marco Aurelio («Compi ogni singola azione come fosse l’ultima della tua vita»); Ovidio (l’ideale dell’ospitalità premiata attraverso la storia sempre commovente dei due anziani sposi, Filemone e Bauci); Gregorio Magno (la suprema comprensione che solo l’intelligenza interiore può ottenere); Dante (ritrovato nello sguardo umile e complice di Flannery O’ Connor).
La terza sezione, che idealmente completa il Trattato delle piccole virtù, pubblicato da Ossola lo scorso anno per Marsilio, è una piccola miniera di risposte vitali, profondamente connesse all’inquietudine causata dal virus: l’abnegazione di medici ed infermieri come sorprendente luminosa risorsa nella tragedia delle migliaia di morti; il valore biblico della pazienza in mezzo al tumulto; l’umana simpatia dell’infanzia quale fondativa esperienza di conoscenza; la silenziosa dedizione delle badanti morte a decine insieme ai loro assistiti; l’estro creativo di certi gesti di vivida naturalezza dentro il frastuono mediatico; la responsabilità esercitata da alcune figure di riferimento, come quella di Dag Hammarskjöld, segretario generale dell’Onu, morto in circostanze misteriose nel 1961, che non cerca conferme e ricava in se stessa un’incrollabile convinzione; la cordialità dei Promessi Sposi, i cui personaggi si ritrovano al villaggio dopo la peste, uniti dalla medesima consapevolezza superstite; l’obbedienza, da non concepirsi più come “effetto di un ordine”, bensì alla maniera di “un consentire avvertito”; il tatto, “il vigile presentire di un cuore attento a ogni vibrazione”; la sobrietà, sancita dal dettato paolino, come “misura del limite”; l’ironia, dove “c’è sempre il velo leggero del lenimento e di un pizzico di compassione”; la dolcezza, figlia “dell’adempimento appagato, serenità che s’illumina”.
Da tempo Carlo Ossola, assorbendo per tutti noi la tradizione letteraria del passato, va componendo con passione e rigore una preziosa cartografia del vecchio mondo. I suoi ultimi libri, fra i quali ricordiamo almeno Il continente interiore (2010) e Nel vivaio delle comete (2018), assomigliano a gocce guidate da un ritmo continuo e scandito, pronte a battere sempre sullo stesso punto: volgiti indietro per capire chi sei, ma non distogliere gli occhi “a nord del futuro”, secondo la folgorante intuizione coniata da Paul Celan. Soltanto così potremo rinnovare, senza respingere l’odierna incertezza, il sentimento di accorata speranza che spinse l’amato Vittorio Sereni, prigioniero in Algeria, a scrivere i suoi indimenticabili versi nelle drammatiche ore dello sbarco in Normandia: «Per questo qualcuno stanotte / mi toccava la spalla mormorando / di pregar per l’Europa.»
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