Ricordi e aneddoti dell'attore e autore
Vincenzo Salemme e Napoli: “Mi manca Massimo Troisi, la borghesia napoletana è feudale”
Quando lo presentano in televisione dicono che è un “attore comico napoletano” ma lo stesso non succede con un milanese. È una delle risposte di Vincenzo Salemme in una lunga intervista rilasciata a Il Corriere della Sera mentre porta in giro il suo spettacolo Napoletano? E famme ‘na pizza!. Eppure “a Napoli siamo noi che teniamo a rendere immortali cose che ci appartengono. La pizza, la mozzarella. O il rapporto pagano con San Gennaro. A Torino una signora mi disse: non capisco chi ha paura di andare a Napoli. Basta uscire senza mettersi l’orologio. Mi faceva i complimenti e fu razzista senza rendersene conto”.
Salemme ha raccontato il ritorno sul palco, l’emozione dopo le chiusure per via della pandemia da coronavirus. E ha ricordato l’infanzia a Bacoli. “Mamma maestra elementare, papà avvocato. A Napoli andai al liceo Umberto. Trenta chilometri, un altro mondo. Mi sentivo fuori posto. Essere provinciale negli Anni 70 era diverso. Oggi c’è Internet . . . Se mi prendevano in giro? Beh sì, a Bacoli parliamo a cantilena, la u al posto della o, ‘u pane, ‘i femmene”. L’educazione sentimentale al cinema di un prozio, i peplum, i western, gli inizi a recitare alle elementari per il vescovo, gli esordi con Eduardo De Filippo.
“Mi piaceva il palcoscenico, potevo mostrarmi come non ero nella realtà. Avevo molti tic. Per esempio, dopo cinque metri mi giravo su me stesso. Per non impensierire mia madre, girandomi fingevo di salutarla. Recitavo per essere accettato. È qualcosa che ti rimane addosso. Alla seconda liceo recitai Napoli milionaria, una ragazza era amica di Sergio Solli che lavorava con Eduardo e mi fece fare uno spettacolino più professionale con Marisa Laurito. Poi un altro con Tato Russo. Avevo 17 anni. A 19, a Eduardo servivano comparse e mi diede due battute per la paga da attore. Mi vedeva così magro che pensava non avessi i soldi per il cibo“.
Un appunto politico – dall’autore del memorabile Lo strano caso di Felice C. – , sempre dai ricordi dell’adolescenza e dalle Feste dell’Unità. “Da ragazzo dovevo spacciare per freschi i calamari surgelati, a mille lire. Io dissentivo. Mi veniva risposto da un dirigente del partito: che t’importa, è un prezzo politico . . . Obiettai: ma noi siamo la verità. E lui: se gli dici la verità, il pesce non se lo comprano più. Qualche riflessione sulla sinistra andrebbe fatta”. Si considera un piccolo borghese. “La più bella borghesia è quella milanese: illuminata. A Napoli è feudale, più materiale; a Roma c’è la pancia della borghesia”.
A Salemme manca Massimo Troisi, “che purtroppo non ho conosciuto: aveva una dolcezza quasi femminile, pur essendo lui maschilissimo. Ma si possono dire queste cose, col politicamente corretto?”. Napoli “è Francia, Spagna, Grecia; è nobiltà barbona, ricchezza polverosa, astuzia senza luce; è una cacofonia armoniosa di suoni e di voci di paura. Napoli è tanta roba, la perdo di giorno e la ritrovo in sogno“. Piatto preferito, inevitabilmente: la pizza. Quella preferita a Napoli? “E come faccio a dirglielo? Se faccio un nome, gli altri mi ammazzano”.
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