Come spesso capita, i nodi vengono al pettine nel momento peggiore. Tutti gli analisti prevedono, per l’Italia, un autunno terribile sia dal punto di vista economico e sia dal punto di vista sociale. Dovrebbe, perciò, essere un momento di massima responsabilità per chi è chiamato, sia come maggioranza e sia come opposizione, alla guida del Paese. E invece. La maggioranza mostra subito tutte le sue crepe, giungendo addirittura agli insulti sul piano personale. L’opposizione non smette di gridare al pericolo di un ritorno del fascismo e di chiedere l’intervento dei politici stranieri contro i vincitori delle elezioni.

Lo spettacolo offerto è, a dir poco, surreale. Di fronte ad un futuro prossimo, che si annuncia difficilissimo e che potrebbe anche vedere l’esplosione della rabbia sociale, maggioranza ed opposizione continuano a pensare che il mondo ruoti intorno al loro ombelico. L’urgenza di affrontare i gravissimi problemi del Paese non è riuscita neppure a scalfire quel cupio dissolvi, che, ormai da tempo, sta logorando le istituzioni e il rapporto tra cittadini e istituzioni. Del resto, anche l’enorme numero di coloro che non vanno a votare, che è cresciuto di elezione in elezione sino a raggiungere nelle ultime elezioni politiche quasi il 40% e che nelle elezioni amministrative è ancora maggiore, non ha spostato di una virgola i comportamenti dei protagonisti della politica italiana.

A questo punto diventa inevitabile chiedersi se non vi sia un rapporto diretto tra crisi della democrazia e crisi economica e sociale. Quel 40% che non è andato a votare ha espresso un sentimento assai chiaro: la sfiducia. Se a questa percentuale si aggiunge quella di chi ha votato avendo in mente solo una prospettiva di assistenzialismo, si deve registrare che ben il 50% degli italiani ha cessato di esprimere una forza vitale proiettata verso il futuro. L’Italia finisce, così, con l’essere una democrazia senza vitalità. In questo scenario il comportamento di maggioranza e opposizione ha un sapore crepuscolare. Occorre, tuttavia, chiedersi come sia stato possibile che una democrazia giovane, come quella italiana, sia appassita così rapidamente. Il pensiero non può non andare alla accusa, formulata in modo particolarmente incisivo e ripetuto da Marco Pannella, contro i ladri di democrazia. In effetti, anche la democrazia può essere rubata e non solo dai dittatori, ma anche da chi ne svuota il contenuto, riducendola a mero formalismo.

In Italia la democrazia è stata oggetto di una sistematica aggressione, che ne ha ridotto man mano l’ampiezza. All’inizio è stata una democrazia forte, capace di ricostruire il paese dopo la guerra e di resistere agli attacchi del terrorismo nonostante, e anzi forse proprio per l’esistenza di una dialettica accesa sul piano politico. L’esistenza della partitocrazia non soffocava quella dialettica. Mani Pulite ha stravolto il sistema: ha offerto a un partito la prospettiva di raggiungere il potere per via giudiziaria in cambio della accettazione di un diverso equilibrio tra i poteri dello stato, che vedesse al centro il potere giudiziario. La crisi del debito pubblico italiano del 2011 (crisi sulla quale non è stata mai fatta chiarezza) ha consentito di aggiungere un nuovo elemento di squilibrio. Il Presidente della Repubblica ha largamente sostituito la volontà popolare nella scelta di chi dovesse governare il paese, ricevendo, anche in questo caso, l’appoggio proprio degli eredi del partito, che più di ogni altro aveva beneficiato di Mani Pulite.

Per far digerire tutto questo, l’ipocrisia istituzionale ed il conformismo intellettuale si sono spesi con tutta la loro forza di persuasione per assopire le menti. Anche la Corte Costituzionale, con la scelta di ostacolare il più possibile l’istituto referendario, ha contribuito a deprimere la partecipazione popolare al governo della cosa pubblica. In questo quadro si colloca la attuale crisi del centrodestra. Crisi molto profonda, come emerge dalle asprezze che l’hanno resa pubblica, e che, di conseguenza, non potrà che continuare a corrodere la maggioranza sino a esplodere nuovamente alla prima occasione, al di là degli aggiustamenti e dei compromessi che saranno raggiunti nell’immediato per formare il Governo. Questa situazione ha due prospettive.

L’una in linea con quanto è accaduto nel recente passato, mentre l’altra è quella di un ritorno alla legalità repubblicana. La prima è ampiamente sperimentata. Si tratta di blandire, convincere, promettere ed “organizzare” nei palazzi una nuova maggioranza, anche se priva di qualsiasi reale corrispondenza con la volontà di quei pochi che hanno continuato ad andare a votare. La giustificazione è che quella italiana è una Repubblica parlamentare e i parlamentari fanno quello che vogliono. La seconda è quella di un ritorno alla Costituzione, la quale prevede, come caposaldo dell’intero sistema democratico, che la sovranità appartiene al popolo. La conseguenza inevitabile sarebbe il ritorno immediato al voto.

Gli effetti, di breve e di lungo periodo, dell’ultima prospettiva sarebbero molti e non di poco conto. La convinzione che, una volta celebrate le elezioni, passa tutto in cavalleria e se ne riparla dopo cinque anni consente alle forze politiche e ai singoli parlamentari di violare impunemente il mandato ricevuto dagli elettori. Ma se, viceversa, vi fosse un concreto rischio di elezioni vi sarebbe la stessa disinvoltura verso il mandato ricevuto? Se le forze politiche e i singoli parlamentari dovessero considerare la reale possibilità di un immediato giudizio popolare, sulle loro prese di posizione e sui loro “tradimenti”, avrebbero la stessa arroganza nel dimenticare la realtà nella quale si dibatte il paese? Sotto altro profilo, se la soluzione delle crisi fosse affidata alla volontà degli elettori e non agli accordi di Palazzo, il numero dei cittadini, che si sentirebbero coinvolti nella gestione della cosa pubblica e, perciò, sarebbero invogliati ad andare a votare, non sarebbe nettamente maggiore?

Su questo punto, va anche rimarcata una strana contraddizione. Vi sono alcuni, uno di questi è Enrico Letta, che auspicano l’introduzione di un vincolo di mandato per i parlamentari, con conseguente trattamento “deteriore” di chi cambia casacca. Ma nulla è detto per l’ipotesi, in cui sia una intera forza politica a tradire il mandato elettorale. In questa prospettiva, la introduzione di un vincolo di mandato per i singoli parlamentari non avrebbe affatto l’effetto di rendere più corretta e leale la condotta degli stessi, ma solo quella di aumentare a dismisura il già enorme potere dei notabili dei partiti, che avrebbero così la garanzia di poter cambiare bandiera, senza veder diminuire le proprie truppe per l’abbandono di coloro, che volessero restare fedeli al contenuto del mandato elettorale ricevuto invece che al capo partito.

Per tornare alla situazione attuale, se il centrodestra non fosse in condizione, per i propri contrasti interni, di esprimere una prospettiva di governo stabile, decente ed efficiente, dopo aver predicato, durante tutta la campagna elettorale, la propria unità di intenti, non sarebbe giusto sottoporre al giudizio degli elettori tale incapacità, invece che farne l’occasione per inammissibili giochi di potere? Certo la situazione economica e sociale è oggi esplosiva. Ma questa constatazione non fa altro che sottolineare gli errori degli ultimi dieci anni, nei quali è stata accuratamente evitata la verifica elettorale in situazioni nelle quali sarebbe invece stata dovuta e salutare.