Giusto un secolo fa, il 16 novembre del 1922, si presentò a Montecitorio con la lista dei ministri, da poco eletto e appena incaricato da Vittorio Emanuele di fare il suo primo governo di larga coalizione. Voleva mostrare tutto il suo disprezzo per gli onorevoli colleghi che chiamò signori, per l’aula di Montecitorio che definì sorda e grigia, accennò ai suoi manipoli di sfegatati pronti a tutto, guardò in cagnesco chi lo applaudiva e subito partì una furiosa scazzottata tra fascisti e socialisti, sedata dai questori.

Tornata la calma, il futuro dittatore salutò con deferenza il re, e tutti gridarono “Viva il Re”. Quanto a lui, in redingote, calzoni neri, ghette bianche e il distintivo dei mutilati emetteva onde di disprezzo come un pentastellato d’antan. Quattro anni dopo, vista l’insistenza con cui le opposizioni disertavano l’aula per l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, pronunciò uno sprezzante discorso con cui inaugurava la dittatura. Vent’anni dopo, con le prime bombe su Roma fu cacciato dallo stesso re che lo aveva assunto e che fu a sua volta licenziato dagli italiani con le prime elezioni e con il referendum. Quelle elezioni, quel referendum e quel clima furono un momento di passaggio di cui non tutti gli italiani si rendevano conto. Andavano di moda canzoni politiche e da cantina specialmente nel Nord dove si cantava. “Te se ricordi Giuàn, de quarantott?”. Data allora memorabile quel 18 aprile del 1948 quando il Fronte popolare socialcomunista (si diceva così: “socialcomunista”) fu battuto con diciotto punti di differenza dalla coalizione democristiana.

Un trauma, un trionfo, un risveglio, una depressione e si sentiva cantare “Avé votà democristiani, senza pensare all’indomani, senza pensare alla gioventù”. Se si vanno a scartabellare tavole e grafici per capire come si sia sgretolata la compattezza degli elettori italiani dal 1946 alla metà degli anni 80, si scopre che tutti andavano a votare ritenendosi in guerra con l’altra metà del Paese e con un sistema di controllo capillare specialmente nei paesi oggi disabitati, dove comandava un comitato formato dal maresciallo, il medico condotto, il farmacista, il parroco e e i capi sezione. Tutti i voti erano controllati in parrocchia e all’osteria. Fino agli anni Ottanta la percentuale dei votanti era sopra il novanta e quando scese fino a ottanta suonò un grido d’allarme oggi ben noto: gli italiani non vanno a votare. Si sono stancati. Sono delusi. L’Italia era sempre spaccata in tre tronconi: quelli che volevano i russi (“Ha da venì Baffone”), quelli che volevano gli americani e quelli che volevano il Papa almeno fino a papa Giovanni XIII.

La democrazia cristiana era uno strumento papale a direzione vescovile con diramazioni parrocchiali come esemplarmente raccontano film e romanzi popolari. Tutto ciò è scomparso. Il papa argentino, non meno di quello polacco o di quello tedesco, si tengono alla larga dai fatti italiani, che lasciano nelle mani della Curia. Poi c’era il quarto troncone che era come un ramo secco: i missini eredi del partito nazionale fascista cui però era vietato usare quel nome. Vivevano nel campo chiuso dall’arco costituzionale e ogni loro emersione anche due generazioni più tardi rimette in gioco parole che con il passar del tempo suonano sempre più vuote. Esisteva anche una larga area monarchica con due leader in concorrenza che si chiamavano Covelli e Lauro, e per la prima volta avevano votato le donne. Già la grande trasformazione era avvenuta nel 1913 quando furono ammessi al voto tutti i cittadini di sesso maschile indipendentemente dal loro censo.

Quella prima Italia repubblicana può essere rintracciata soltanto nella memoria di chi c’era o tra i cultori di buoni film d’epoca, il bianco e nero appunto. Esisteva una classe sociale che oggi è scomparsa come possono scomparire i nativi dei continenti colonizzati. Oggi di contadini non ne esistono più, sostituiti dai farmers all’americana, conduttori di eccellenti aziende agricole e produttori e commercianti colti e moderni. Ma nell’Italia che cominciò a votare dal 1946 esistevano esseri umani che oggi non ci sono più: quel che era rimasto del contado, dei servi della gleba, delle jacquerie contadine di tutti i secoli, con i loro figli rapati a zero e le orecchie a sventola, i quali difendevano insieme al loro pezzo di terra una tradizione e un’origine millenaria.

Come cronista dell’Avanti! mi capitò di assistere a un evento oggi incredibile: una vera carica di carabinieri a cavallo con la tromba e la sciabola sguainata contro i contadini che occupavano le terre e che fuggivano nel fango. La falce e il martello erano del resto i simboli comunisti ereditati dalla rivoluzione sovietica e accolti persino dal partito socialista che declassò il libro della conoscenza e il sol dell’avvenire. Si può dire che furono tutte elezioni di guerra perché il mondo era in guerra anche se fredda ma con molte vampate roventi. La guerra in Corea costo milioni di morti e fu il primo scontro a fuoco fra occidentali e cinesi sostenuti dai russi, prima di quello del Vietnam dagli anni 60 e 70.

Come e quanto tutto ciò ha a che fare con le elezioni di quei tempi? Posso solo appellarmi alla mia memoria: tutti sapevamo che la guerra era imminente, tutti sapevamo che ci saremmo ripresi a giustiziare per strada e sulle montagne. Senza contare l’incubo di quel bagliore e di quel fungo che veniva replicato abbondantemente con gli esperimenti atomici americani, sovietici inglesi e francesi. Quando oggi ci si chiede come mai gli italiani non vadano a votare io che quegli anni li ricordo come un incubo vorrei rispondere sorridendo che per fortuna abbiamo raggiunto quell’alto livello di democrazia e di stabilità che ci permette di infischiarcene di chi viene eletto non eletto perché esiste comunque un quadro di stabilità che permetterà a noi e ai nostri figli di seguitare a vivere. Lo so, quello che ho appena scritto, è oggi precario.

Una vera grande guerra, smisurata e incalcolabile, è diventata di colpo reale e minacciosa insieme alle maledizioni che ottimisticamente avevamo dimenticato: la peste dei virus, la carestia che può uccidere milioni di persone per fame, la guerra stessa con roghi e temperature di una vastità mai conosciuta, la mancanza di energia con cui mantenere vivi tutti coloro che oggi sono vivi semplicemente nutrendoli quanto basta per mantenerli vivi. Tutto è in discussione ma guardiamo alle elezioni del prossimo 25 settembre come se esse riguardassero soltanto un paio di buoni aggiustamenti da dare alle tasse, al lavoro squilibrato tra chi offre ma non trova e chi lo cerca senza trovarlo, se ci sforziamo di mettere in relazione queste prossime elezioni col nostro passato più recente.

Quando il direttore del Riformista mi ha chiesto un pezzo sulle elezioni in Italia sono corso a scartabellare percentuali, date, nomi di partiti estinti, comportamenti elettorali estinti anche loro con chi li aveva adottati. C’era rimasta poca Emilia rossa, con residui più resistenti in Toscana e Umbria, La Lega abita dove abitavano i democristiani del nord e il resto è tutto una corsa apparente mente convulsa per trovare l’ultima battuta da sfornare su Twitter o per dare sia con malizia che senza malizia del fascista, del nostalgico delle Brigate Rosse, delle Brigate nere, dai mercanti di carne umana che trafficano nel Mediterraneo, fingendoci ora buonisti e accoglienti, ora odiosi nemici dei poveri del mondo sicché per la mia esperienza ed età vedo uno smisurato crescere e morire di retoriche a vita breve che di tanto in tanto creano fenomeni di massa destinati a sgonfiarsi.

Ci furono elezioni che somigliavano a manifestazioni di massa antichissime, con apparizioni sia di madonne piangenti lacrime anche di sangue che di agit prop, una razza del tutto scomparsa, gli specialisti della politica popolare in piazza quando non c’erano i social e che gridavano, discutevano, rispondevano, accusavano dimostravano, negavano, urlavano, sussurravano in modo tale da formare capannelli agitati usi quali prima o poi piombavano le forze dell’ordine in uniforme grigia con degli elmetti ancora più grigi e dei bastoni corti come i manganelli della celere, la polizia del ministro Mario Scelba che si era data il compito di sedare con le brutte tutti i tumulti, di destra e di sinistra, anzi se possibile più di destra perché Scelba era l’autore della legge che metteva al bando i fascisti e la strade e le piazze durante i periodi elettorali si trasformavano spesso in corride fra poliziotti in jeep e manifestanti.

Mi capitò di essere inseguito da una jeep della celere che salì sul marciapiede per assestarmi un bel po’ di legnate perché mi trovai in mezzo a una manifestazione per Trieste italiana. E rimasi sbalordito oltre che spaventato dalla determinazione con cui gli agenti motorizzati avevano preso di mira i manifestanti senza alcuna ragione plausibile. La grande domanda su perché gli italiani prima votassero e poi abbiano cominciato a disertare il voto trova una sola risposta ed è quella della fine dei grandi monoliti come la Dc il Pci definitivamente stanchi di combattere una guerra che non era più realistica e meno che mai reale. Ma questo portò a una frantumazione delle posizioni. Da una parte quella di Giulio Andreotti, il più longevo e raffinato politico italiano, che trascorse la sua vita politica su una posizione totalmente filoamericana e atlantica, e dall’altra quella di una totale ammirazione per la Russia sovietica appunto. Ma erano gli ultimi sprazzi di qualcosa che avveniva lontano dai nostri confini e che poco appassionava l’elettorato italiano.

Stava mettendo le radici l’abitudine di dare per scontata (perché sempre meno convincente) l’ideologia sostituita da alcuni ceppi di retorica sempre più nutrita dalle vaghe scienze ed esperienze legate al sociale. Specialmente la retorica degli eroi: spuntano preti eroi, giornalisti eroi, poliziotti eroi, insegnanti eroi… Si potrebbe continuare a lungo. Ma il punto è che tutto questo eroismo testimoniava soltanto la mancanza di una stabilità media nella qualità dei servizi che un paese moderno si attende. La questione delle tasse che oggi è così rovente ma non soltanto da oggi, divide in maniera veramente ideologica. C’è l’ultimo residuo dell’ideologia di sinistra, nella sinistra che gira e rigira chiede di togliere dalle tasche di chi ha delle legittime ricchezze su cui ha pagato ogni tassa ed imposta per alimentare chi ha di meno. Quando si parla di Giorgia Meloni come di un fenomeno terribile visto da sinistra, Tutta la sinistra guarda il dito e non la luna perché evita di chiedersi e rispondersi perché e come mai una donna di destra abbia o possa avere un successo strepitoso.

Il problema maggiore della nostra democrazia in fase elettorale sappiamo qual è: nessuno può sognare coltivare un elettorato, quello che gli inglesi chiamano constituency, padrone e signore del deputato o senatore. Da noi sta per passare una legge già annunciata e di stile grillino secondo cui i rappresentanti devono essere considerati degli impiegati di cui si deve misurare la frequenza ed essere castigati per le loro scelte, compresa la scelta di non partecipare al voto, che non è la stessa cosa che astenersi. Il Parlamento italiano, lo posso testimoniare personalmente, è un luogo in cui non si parla. Non c’è gusto. Siete mai andati sulla BBC quando trasmette dalla Camera dei Comuni? Sembra una festa ben riuscita perché piena di gente libera che parla liberamente.

Inoltre, l’Italia non sa esprimere una leadership degli elettori stessi e cerca l’equivalente dell’uomo forte, e anche il Quirinale si è approvvigionato da Bankitalia con Carlo Azeglio Ciampi già primo ministro e ora scopre che un’Italia non governata dalla credibilità di un leader che appaia come un leader, sul piano internazionale non vale una cicca.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.