Il dibattito tra massimalisti e riformisti
La lotta e l’accordo, così nel 1920 vinse la strada riformista
Il 19 settembre del 1920 Giovanni Giolitti convocava le parti sociali a Roma, al Viminale allora sede della Presidenza del Consiglio, con l’intento di raggiungere un “concordato” che ponesse fine all’occupazione delle fabbriche (che era in corso, in alcune aree del Paese, da una ventina di giorni e che quindi durò meno del “maggio francese” del 1968). Lo statista liberale si era rifiutato – nonostante le pressioni degli industriali – di usare la forza per liberare le fabbriche dagli occupanti. Aveva intuito che l’unica possibilità di una soluzione incruenta risiedeva nel riuscire a riportare la vertenza sul terreno sindacale da cui era nata, sbandando nell’escalation delle forme di lotta: gli operai avevano adottato metodi di ostruzionismo a cui gli imprenditori avevano risposto con la serrata e i sindacati avevano di conseguenza ordinato l’occupazione delle fabbriche metallurgiche (poi estesa anche ad altri settori dell’industria e non solo). In pochi giorni il movimento aveva coinvolto 500 mila lavoratori, con picchetti armati sui cancelli degli stabilimenti. Giolitti era convinto che gli stessi dirigenti della Cgil e della Fiom, da veri socialisti riformisti, lavorassero per la sua stessa prospettiva, essendo consapevoli che proseguendo in quella lotta – all’inseguimento della chimera della rivoluzione – la classe operaia sarebbe stata condotta al massacro.
All’incontro, nella sala del Consiglio dei Ministri al Viminale, erano presenti – scrive Paolo Spriano – oltre a due prefetti (Lusignoli e Taddei) – D’Aragona, Baldesi e Colombino per la Cgil, Marchiaro, Raineri e Missiroli per la Fiom; Conti, Crespi, Olivetti, Falk, Ichino e Pirelli per la Confederazione dell’Industria. Giolitti presiedeva la riunione e volle accanto a sé D’Aragona. Dopo sei ore di discussione il concordato venne sottoscritto. I suoi contenuti economici e normativi rappresentarono un successo per il sindacato, tanto che, il testo, sottoposto a referendum, fu approvato dalla grande maggioranza dei lavoratori. Ma, in quella stagione di miraggi, anche i sindacalisti riformisti non potevano evitare di misurarsi con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; occorreva essere, quindi, convincenti e competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. In sostanza, non sarebbe bastato un risultato importante sul piano sindacale se non fosse stato considerato una tappa nella marcia del “proletariato” verso il socialismo. Così nel “concordato” la Cgil e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa a chi prometteva i Soviet.
Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge”. Anche allora vi era la consapevolezza che le Commissioni servissero per accantonare delle questioni difficili, sia pure attribuendo ad esse un valore fittizio rispondente sulla carta ai desiderata delle organizzazioni sindacali. Fatto sta che, in sede politica, la questione del controllo operaio divenne la cartina di tornasole del rilievo (o meno) dell’intesa. Sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’accordo) Giacinto Menotti Serrati, leader della maggioranza massimalista, iniziò l’offensiva critica. Partendo da un apprezzamento del risultato dal punto di vista sindacale, per quanto riguardava gli aspetti economici e normativi, Serrati sostenne che il concordato non fosse soltanto una vittoria dei metallurgici, ma anche di Giovanni Giolitti. Le critiche più severe, tuttavia, afferivano alla problematica del controllo operaio.
«Il conquistato controllo delle fabbriche, quando pure riuscisse a funzionare non potrà che rappresentare una mistificazione o una corruzione. Il controllo – proseguiva l’esponente del Psi – è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese». E di nuovo: «L’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale»; aggiungendo poi un auspicio visionario: «Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente», perché «la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti». Gli rispose Filippo Turati su Critica Sociale (il quindicinale dei riformisti). «La rivendicazione del controllo operaio, mantenuto nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è essa stessa una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica».
«Scopi immediati della riforma vogliono essere – in linea con le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo». E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: «La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi». A un secolo di distanza non siamo in grado di giudicare la buonafede di Turati ovvero se fosse davvero convinto – pur sostenendo un indirizzo politico corretto e condivisibile – che la Commissione paritetica avrebbe portato a compimento l’incarico. È invece palese la malafede di Serrati. Come disse un esponente socialista milanese a commento della sessione della Direzione del Psi che mise all’ordine del giorno la rivoluzione: «Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluto trasportare nel nostro Paese».
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