L'analisi dei flussi
Renzi e Calenda a un bivio: il Terzo polo andrà verso destra o sinistra?
Le grandi linee dei risultati elettorali sono chiare e permettono di fare un certo numero di considerazioni. Ma vorremmo partire da un accenno a un dato a proposito del quale si rileva sempre che è meritevole di riflessione e che però cade regolarmente nel dimenticatoio: quello delle astensioni. Con la caduta della partecipazione manifestatasi in occasione delle elezioni di domenica (votanti 64%) risultiamo uno dei paesi occidentali con un maggior numero di diserzioni dalle urne. E abbiamo assistito – come evidenzia la pronta analisi dell’Istituto Cattaneo – alla più forte diminuzione della partecipazione nelle elezioni politiche dal dopoguerra ad oggi, con una particolare intensità nelle regioni meridionali (alle quali ha contribuito anche il maltempo).
Le analisi dei flussi mostrano che una parte significativa delle astensioni proviene da chi aveva votato M5s nel 2018 e oggi non ha voluto rinnovare la fiducia a quel movimento: segno che, tramontato il mito della protesta incarnato allora dai grillini, non si trovano risposte soddisfacenti nel resto dell’offerta politica. Ma il fenomeno ha dei fondamenti più generali: esso dipende, certo, dalla crescita del numero di anziani che, sovente, manifestano impedimenti “strutturali” nel recarsi a votare, ma, specialmente dallo straordinario tasso di indifferenza alla politica (ancor più che di disaffezione) rilevabili tra le giovani generazioni, specie quelle coinvolte (ma in realtà completamente disinteressate) nel battesimo del voto. Questa apatia politica delle nuove leve costituisce un problema non indifferente anche per chi andrà al governo: far partecipare i giovani, interessandoli con iniziative costruttive e coinvolgenti e motivandoli nella fiducia delle istituzioni costituisce uno dei primi doveri principali di chi assumerà le leve del potere.
Ciò detto veniamo all’analisi del risultato dei singoli partiti. Cominciando da quelli che siederanno all’opposizione nel nuovo parlamento, sempre a bicameralismo fotocopia, ma ridotto nel numero dei rappresentanti. Il M5s di Grillo, che fu il primo partito nelle elezioni politiche del 2018, ottiene oggi meno della metà dei voti di allora, ma è stato protagonista di una vera e propria “rimonta” verificatasi nelle ultime settimane di campagna elettorale. In assenza di quest’ultima avrebbe verosimilmente perso ancora di più. L’artefice della risalita è stato il suo segretario che, approfittando anche della sua popolarità individuale (mai perduta da quando fu presidente del Consiglio), ha impostato un fine campagna tutto incentrato sulle aspettative economiche dei votanti del Meridione. Centrando l’obiettivo.
Per questo si può tranquillamente dire che il M5s – abbandonata completamente la linea del “vaffa” e della mera protesta – si connota ormai come il partito personale meridionale di Giuseppe Conte, caratterizzato da politiche assistenzialiste, con un’immagine vicina a posizioni vagamente di sinistra radicale, anche se queste ultime sono solo in qualche misura presenti, ma certo non dominanti fra i suoi elettori. La divisione fra il Sud e il Nord, sia dal punto di vista socioeconomico che, oggi, dal punto di vista del comportamento elettorale rischia dunque di acuirsi. E non bisogna dimenticare che, comunque, i grillini hanno perso metà dei voti, gran parte dei quali sono confluiti nell’astensione e che costituiscono un bacino potenziale per future formazioni che cavalchino la protesta sociale come fece il M5s nel 2018.
Il Pd ha perso voti sul lato dei riformisti che hanno scelto di votare per Calenda (e del quale è il primo “donatore” di consensi), prevalentemente al Nord e nelle grandi città, senza però guadagnarne sul versante “a sinistra” e senza riuscire ad attirare gli elettori che hanno abbandonato il M5s e che, come si è detto, sono andati a ingrossare le file degli astensionisti. Il partito guidato da Enrico Letta ha ottenuto il cattivo risultato che si è visto, non solo perché il campo largo si è presto rivelato una utopia e la gestione delle alleanze in questo senso è stata inevitabilmente disastrosa (anche se l’ipotetico – e disomogeneo – “campo largo” ha comunque ottenuto nel suo insieme poco più del 49% dei voti, dimostrando di essere – teoricamente – un attore significativo nello scenario politico), ma, specialmente, perché le due anime del partito, quella riformista e quella post-comunista avevano chiamato Letta alla segreteria del partito per tenerlo unito e quindi per non scegliere. Questo ha in una certa misura impedito al segretario di definire una chiara identità del partito che non fosse quella di essere “contro” la destra di Meloni.
Troppo poco – e non abbastanza credibile – per evitare una sconfitta pesante, che Letta nella sua integrità personale ha riconosciuto e che gli ha fatto decidere di passare la mano. A chi, lo si vedrà al congresso: ma resta il fatto che se il Pd non vuol fare la fine dell’asino di Buridano, che morì di inedia non riuscendo a scegliere fra due opzioni possibili per soddisfare la sua fame, il partito dovrà necessariamente orientarsi verso una direzione politica precisa. Tra i perdenti e i vincitori delle elezioni sta appunto al centro il partito nuovo di Calenda-Renzi che ha fatto meglio di quanto non risultava negli ultimi sondaggi pubblici, ma peggio di quanto i promotori potessero sperare. Secondo i flussi pubblicati sin qui, non sembra aver raccolto voti a destra, ove la capacità di attrazione si è rivelata molto esigua, ma, come si è detto ha trovato nella sinistra moderata (e anche in una porzione di ex astenuti) la gran parte dei suoi consensi.
Ma questa formazione politica esiste oggi nel parlamento e nella politica e si vedrà se sarà in grado in futuro di espandersi verso destra e verso sinistra o se ancora una volta il centro – diversamente che in Francia – si rivelerà una speranza stanca. Resta il fatto che un’area di “centro” sembra comunque risiedere anche nel nostro paese, se si considera anche il risultato – superiore a quanto stimato dai sondaggi – di Forza Italia, il che mostra l’esistenza di un segmento di elettori comunque “fedeli” al Cavaliere e connotati da una netta collocazione di centro nella alleanza di destra. La destra ha vinto, ma si tratta in larghissima misura di una vittoria personale di Giorgia Meloni. I voti per la coalizione di destra-centro sono costituiti da suffragi per lei più che per il suo partito e ancor meno che per i suoi alleati i quali, in particolare nel caso della Lega, hanno subito una forte sconfitta. Letta ha detto che non sarà candidato alla segreteria del suo partito al prossimo congresso, Salvini non sembra pensare di essere sostituibile, nonostante il massiccio spostamento di voti verso Meloni di cui dovrebbe chiedersi la ragione.
Ma su questo tema deciderà la Lega. Occorre ricordare al riguardo che non solo il progetto salviniano di partito “nazionale” (a causa del quale la “Lega Nord” fu messa in soffitta) è tramontato in seguito alla vera e propria “conquista” del Sud da parte del M5S, ma la Meloni ha superato il Carroccio in molte significative aree del Nordest che erano già feudo del Carroccio. Meloni (anche perché Draghi non era candidato) è parsa evidentemente come l’unica figura di leader credibile ai più rispetto agli altri, e in una democrazia in cui le ideologie del passato contano meno e i partiti sono deboli e/o malvisti, il voto si orienta soprattutto verso i leader, con i quali gli elettori si identificano o dai quali si aspettano soddisfazione delle loro domande. Gli altri leader apparivano consumati o scialbi nei confronti della presidente di FdI.
Meloni rappresenta la novità, il nuovo da mettere alla prova, per la maggioranza dei suoi elettori non certo perché è post-fascista ma perché non ha mai avuto rilevanti posizioni di governo. Come si sa, questa continua ricerca del “nuovo” e del “diverso” è una costante dell’elettorato del nostro paese, sperimentata in passato con Berlusconi, Renzi e diversi altri. Sono state provate tutte le altre opzioni, e Meloni resta (per ora) l’ultima sponda. La leader di FdI ha vinto decisamente la campagna elettorale. Ma ora si apre per lei la sfida del governo, prima quella di comporlo, poi quella di guidarlo. Lei ha vinto da sola e in qualche misura affronta da sola, anche se aiutata da Guido Crosetto e da altri collaboratori, il prossimo ben più arduo compito. FdI non ha da sola spalle sufficientemente larghe per governare un paese in balia di note e pregresse difficoltà economiche e in un mondo scosso dall’avventurismo russo in Ucraina.
Ma, al tempo stesso, gli alleati di Meloni rischiano per certi versi di costituire un ostacolo piuttosto che un vantaggio, anche se il legame di FI con il Partito popolare europeo le sarà utile. E, appunto, insieme alla gestione dell’economia, il rapporto con le istituzioni europee rappresenta un problema decisivo per la vincitrice delle elezioni. Le posizioni dei tre partiti della coalizione di destra centro al parlamento europeo sono, come si sa, disomogenee e il governo italiano dovrà chiarire la sua collocazione. La campagna elettorale è finita. E si può comprendere la difficoltà di chi dovrà prendere come rappresentante dell’Italia in Europa e nel mondo il posto di Mario Draghi.
Auguri. La pacchia della campagna elettorale è dietro le spalle. Ora tutto rischia di essere più difficile.
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