La strada in salita del Nazareno
Gli errori del Pd: rassegnarsi a perdere tutti i collegi uninominali è stata una autocondanna annunciata
Se fosse veramente così, l’errore nella pianificazione della campagna elettorale del centro-sinistra non avrebbe potuto essere più evidente. Rassegnarsi a tavolino a perdere la quasi totalità dei collegi uninominali è stata un’autocondanna annunciata. Ma si è trattato effettivamente di errore? Difficile che classi dirigenti così professionalizzate nel districarsi all’interno del mercato politico abbiano potuto commetterlo per negligenza o imperizia. E il discorso vale in particolare per un partito come il Pd.
La verità è probabilmente un’altra. Gli anglofili la chiamerebbero path dependance: il vincolo discendente dall’aver scelto un certo percorso. E il percorso del Pd, rispecchiato nella narrazione che ha intriso la sua campagna elettorale, era legato a due variabili indipendenti e, quindi, obbliganti. La prima è quella legata ai richiami della tradizione. I potenziali alleati non erano tutti uguali. E nella gerarchia del Pd il primo posto spettava di diritto a quei pezzi della sinistra ortodossa che, appunto, sono parte qualificante del centro-sinistra storico. Bersani e Speranza da un lato, Fratoianni e Bonelli, dall’altro, appartengono alla foto di famiglia della tradizione, molto più di Calenda e Renzi o Conte e Grillo. Si può litigare, dividersi, ma un posto, da qualche parte, nell’immaginario di un partito con la storia del Pd, radicato nella confluenza tra ex comunisti ed ex democristiani di sinistra, non può mancare.
La seconda variabile indipendente che ha imposto il “vincolo di percorso” sta nel profilo che il Pd si è dato in questi anni. Il partito istituzionale, quello che esprime, praticamente da sempre, le più alte cariche dello Stato; quello in prima linea quando si tratta di “accorrere” per arginare le crisi. Partito del governo tecnico per eccellenza, quello “disposto” a governare anche se ha perso le elezioni. E così, il partito della “responsabilità” non ha esitato a sacrificare Calenda quando ciò avrebbe significato perdere la costola della sinistra storica o quando si trattava di offrire una sponda ai dimaniani, la cui fedeltà alla linea della responsabilità richiedeva un cordone protettivo anche per ampliare il fossato rispetto alle intemperanze pentastellate. La scommessa insomma non era vincere le elezioni, ma contenere le perdite, aspettando che gli avversari del centrodestra, indeboliti da una vittoria quanto più possibile “risicata”, non cedessero di fronte alla propria ineluttabile implosione. Solo i prossimi mesi ci diranno se questa scommessa sia stata il vero errore strategico, o non, invece, una scelta vincente. Che consenta, dopo un po’ di purgatorio e passata la luna di miele tra Meloni e il paese, di risultare pronti alla prossima chiamata alla responsabilità.
Questo schema di gioco potrebbe essere rafforzato dall’indebolimento significativo dei partner di FdI. Che certo festeggiano la vittoria del centro-destra con l’amaro in bocca. A fronte di ciò, però, ci sono altre novità che rendono la strategia più incerta. Innanzitutto il significato della marcata affermazione della Meloni. Tentare di rubricarla alla voce “recrudescenza del sovranismo” non convince. Troppa la distanza tra il risultato di oggi e quel 4 per cento di cinque anni fa, quando il populismo sovranista era al suo acme e le parole d’ordine di FdI molto più sbilanciate. La Meloni vince, ma certo non per l’estremismo esibito (che non c’è stato). Piuttosto, semmai, per la coerenza del proprio posizionamento all’opposizione e della sua capacità di voltare lo sguardo più verso il centro che verso l’estrema. E la coerenza all’opposizione è frontalmente alternativa alla cultura della politica del soccorso responsabile.
La seconda variabile che potrebbe mettere in crisi lo “schema dell’attesa”, con la prospettiva di ritornare in gioco a crisi conclamata, si chiama “terzo polo”. L’8 per cento in un contesto politico così presidiato e ostile ai newcomers non è affatto male. Ma certo rischia di essere inutile se non si chiarisce la strategia che lo accompagna. Se la strategia fosse quella enunciata in campagna elettorale (aggregare i migliori in una prospettiva Draghi o simil-Draghi) probabilmente non sarebbe una minaccia, ma anzi si rivelerebbe coerente con l’attesa del Pd per il “momento delle responsabilità. Ma se, invece, Calenda e Renzi considerassero veramente quello un punto di partenza, per una traversata del deserto, eguale e speculare a quella della Meloni, con l’obiettivo ambizioso di insidiare proprio al Pd la centralità nel centro-sinistra, allora gli scenari potrebbero essere ben altri. E in quel caso, la scelta strategica dei democratici sulla conduzione della campagna elettorale, sarebbe stato effettivamente un errore.
© Riproduzione riservata