Per capire la differenza tra il sistema parlamentare britannico e quello italiano basta osservare la diversa architettura delle rispettive camere. La Camera dei Comuni e la Camera dei lords sono rettangolari; maggioranza di governo ed opposizione, con i rispettivi leader, sono poste l’una di fronte all’altra; i due settori sono marcati da una linea rossa invalicabile e la distanza che li separa è pari a quella di due spade, le cui punte devono appena sfiorarsi, a significare che il confronto parlamentare può e deve essere duro ma mai trascendere nell’aggressione fisica dell’avversario (tutto il parlamentarismo inglese è carico di affascinanti simbolismi!).

Questa disposizione non è ovviamente casuale ma risponde alla caratteristiche di quella forma di governo, dove l’esistenza di un sistema tendenzialmente bipartitico, diviso tra laburisti e conservatori accomunati però da una cultura politico-costituzionale omogenea, permette agli elettori di votare non solo per eleggere i propri rappresentanti nei singoli collegi uninominali ma anche per scegliere la maggioranza di governo, designando indirettamente come Premier il leader del partito vincente, e di contro l’opposizione che ha il compito non di sostituire il governo in corso di legislatura ma di contrapporsi a esso, attraverso la propria serrata attività di controllo e di critica politica, allo scopo di proporsi come futura maggioranza alle prossime elezioni.

Nel nostro paese, invece, Camera e Senato hanno una dimensione semicircolare, per cui non è dato cogliere immediatamente il confine che separa la maggioranza di governo dall’opposizione. Il che è perfettamente corrispondente alla forma di governo parlamentare di tipo invece consensuale, dove l’esistenza di un sistema multipartitico e multipolare, espressione delle fratture che attraversano una società per questo eterogenea, permette agli elettori di votare solo per i partiti i quali decidono poi in Parlamento se e come dar vita a (instabili) governi di coalizione, guidati da un presidente del Consiglio che ha principalmente il compito di mediare tra i partiti che compongono la sua maggioranza parlamentare.

Tale assetto ha caratterizzato il funzionamento della nostra forma di governo parlamentare fino al 1994, quando, com’è noto, si è cercato di passare a un sistema di tipo maggioritario grazie alla bipolarizzazione del sistema partitico indotta dalla modifica della legge elettorale. Tale sistema, che si prefiggeva governi di legislatura, in realtà non ha mai funzionato, se si eccettua il Berlusconi III (2001-2005), perché le maggioranze di governo scaturite dalle urne sono presto o tardi entrate in crisi (Berlusconi I 1994, Prodi I 1998, Berlusconi III 2005, Prodi II 2008, Berlusconi IV 2011). L’ingresso del M5s ha poi trasformato il nostro sistema partitico in tripolare, facendo così venire meno la precondizione per una designazione elettorale delle maggioranze di governo. Da qui le diverse maggioranze e i diversi presidenti del Consiglio succedutisi nelle ultime due legislature (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi).

In questo scenario politico-istituzionale è evidente che il quadro politico, a distanza di ben trent’anni dalla fine della cosiddetta Prima Repubblica, sia ancora ben lungi dall’assestarsi e sottoposto a continue fibrillazioni, come dimostra il fenomeno tutto italiano del trasformismo parlamentare, cioè di quegli eletti che, specie in occasione delle crisi di governo, cambiano gruppo parlamentare e, talora collocazione politica, rispetto a quella originaria, magari dando vita in corso di legislatura a “partiti di eletti” la cui consistenza parlamentare si è sempre finora rivelata maggiore rispetto all’effettivo seguito elettorale, come dimostrano i flop elettorali di Futuro e Libertà di Fini, del Nuovo Centro destra di Alfano e oggi di Insieme per il Futuro di Di Maio e di Coraggio Italia di Toti e Brugnaro (e chissà quale sarebbe stato il risultato elettorale di Italia Viva di Renzi se non si fosse alleata con Azione di Calenda). Veniamo dunque da una legislatura in cui tale fenomeno è esploso, con ben 198 cambi di gruppo al Senato e 401 alla Camera, dove il gruppo misto è divenuto il secondo per consistenza numerica.

Dicevamo all’inizio della conformazione architettonica delle camere. Quello che potrebbe sembrare un elemento tutto sommato esteriore invece non è affatto irrilevante anche ai fini del funzionamento del nostro sistema di governo. Basterebbe ad esempio notare che le proposte favorevoli ad un ampliamento delle competenze del Parlamento in seduta comune (a cominciare dal conferimento e dalla revoca della fiducia al governo per finire alla conversione dei decreti legge) si sono potute formulare in questi ultimi mesi perché solo ora, dopo la riduzione del numero dei parlamentari da 945 a 600, l’aula di Montecitorio potrebbe contenerli tutti, mentre prima non era possibile (ed infatti le camere riunite si riuniscono non per discutere ma per eleggere).

Proprio la riduzione del numero dei parlamentari potrebbe indurre a una semplice innovazione, a mio modesto avviso solo apparentemente marginale, ma forse invece non totalmente inutile, e comunque di grande impatto, quantomeno visivo. Poiché, a seguito di tale riduzione, i numeri dei posti disponibili nelle due Aule sono superiori a quello dei loro componenti effettivi, gli Uffici di Presidenza, in vista della inaugurazione della prossima legislatura, hanno deciso di “restringere” i due emicicli, eliminando alcune file di seggi: quelle superiori, inferiori e più laterali; il che, peraltro, a quanto pare, potrebbe costringere le forze politiche di destra e di sinistra ad una innaturale convergenza verso il centro, abbandonano le tradizionali postazioni.

Da qui una modesta proposta, di facile ed immediata attuazione: non si potrebbe invece profittare di tale riduzione per lasciare tra maggioranza di governo ed opposizione un settore dell’emiciclo vuoto per marcare, anche visivamente, la distanza tra le due, esattamente come avviene in Gran Bretagna? Lungi da me ovviamente l’idea che in tal modo si possa limitare il transfughismo parlamentare, che ha profonde radici nella nostra cultura politico-parlamentare. Però credo che si farebbe quantomeno un servizio agli elettori in termini di trasparenza e di responsabilità se costoro potessero immediatamente identificare chi sta con il governo e chi invece è chiamato a fare opposizione. Sarebbe una piccola innovazione, certo, ma dal grande significato.