Mentre Giorgia Meloni con il centrodestra, o come alcuni sottolineano il destracentro, pensa a come formare il nuovo governo del paese, viene naturale chiedersi cosa sia restato della recente campagna elettorale. La repentinità, con cui la politica è passata da una fase di gestione dell’emergenza economica e sociale in attesa di giungere ad una ordinata fine della legislatura alla fase preelettorale, ha consentito di registrare con maggiore precisione l’esistenza o no di differenze tra la comunicazione politica prima e dopo la indizione delle elezioni. Poche e di rilievo non significativo le differenze!

Slogan molto superficiali c’erano prima della campagna elettorale e slogan molto superficiali sono restati durante la campagna elettorale. L’argomentazione più evoluta è sembrata quella che si richiamava alla cd. Agenda Draghi. Il tentativo evidente era quello di dare un contenuto preciso alla propria proposta politica, utilizzando la tecnica del rinvio. Nel momento, tuttavia, in cui gli avversari denunciavano che Draghi non era in campo e che una Agenda Draghi non c’era e non c’era mai stata, il tutto si riduceva a nient’altro che ad un nuovo slogan: “noi saremo persone serie”.

Si aggiunga che anche la differenza tra i messaggi delle forze in campo era difficilmente percepibile. Tutti sottolineavano il dramma dell’incremento delle “bollette”, ma nessuno forniva proposte serie per la soluzione. Si è avuta l’impressione, perciò, che la competizione tra le forze politiche si sia svolta senza una reale contrapposizione tra visioni diverse del futuro della società italiana. Questa sensazione era, poi, accentuata dalla esistenza, in ciascuno schieramento, di sensibilità non omogenee relativamente ai temi più significativi. La inevitabile conseguenza è stata l’assenza di appigli sufficienti per poter proporre agli elettori visioni realmente alternative. Questa circostanza ha fatto sì che la comunicazione politica, che era piatta e largamente indifferenziata quanto ai contenuti prima della crisi di governo, sia restata tale anche durante la competizione elettorale. Davvero molto difficile, dopo questa campagna elettorale, individuare, per chi voglia guardare con occhi obiettivi, differenze radicali tra le forze politiche di maggior peso. Solo sfumature, incapaci di dare all’elettore la possibilità di una scelta tra alternative realmente diverse. In fondo, la stessa musica suonata al più con arrangiamenti diversi.

Si consideri la guerra in Ucraina. Alcuni hanno sottolineato ripetutamente e più degli altri il danno per l’economia italiana derivante dalle sanzioni alla Russia e la necessità di perseguire la pace, ma nessuno ha mai messo espressamente in discussione la decisione di non abbandonare l’Ucraina al suo destino e di sostenerla. Così come nessuno ha mai contestato l’appartenenza dell’Italia alla Alleanza Atlantica. Anche rispetto all’Europa, le differenze non hanno mai riguardato, neppure di lontano, l’appartenenza all’Unione Europea e l’adesione all’euro, come era invece accaduto nella precedente campagna elettorale per le politiche del 2018. Differenze vi sono state circa il modo di stare in Europa. Ma anche tali differenze si sono nettamente attenuate quando è stato inevitabile prendere atto che alcuni partner, nonostante l’estrema delicatezza di questo momento di crisi energetica, hanno pensato esclusivamente al loro interesse nazionale. Si pensi alla posizione dell’Olanda e, soprattutto, alla posizione della nazione leader dell’UE e cioè della Germania sul price cap, invocato a gran voce non solo dal Governo italiano.

Anche per quello che concerne il reddito di cittadinanza, a guardare l’enfasi con cui veniva affrontato l’argomento, avrebbe potuto sembrare necessario distinguere tra chi voleva abolirlo e chi no. Nei fatti, vi era, e vi è, una larga convergenza sulla necessità di mantenere una adeguata misura di sostegno alla povertà, specie in un periodo di grave crisi come questo. I temi, poi, che avrebbero potuto essere realmente divisivi, come quelli dell’immigrazione o della riforma della giustizia, sono restati fuori dal dibattito elettorale. Nessuno se l’è sentita di cavalcare fino in fondo le proprie posizioni su questi argomenti e di rischiare di perdere una parte del proprio elettorato. Si è trattato di elezioni, in definitiva, nelle quali nessuno dei contendenti principali aveva qualcosa di nuovo e di diverso da dire. Il che ha determinato, talvolta, anche il grottesco, come quando la sinistra ha accusato la destra di non essere sufficientemente liberista in economia e di dare troppa importanza al ruolo dello stato.

In questa generale drammatica povertà di idee, il Partito Democratico ha giocato due carte disperate: il richiamo all’antifascismo per contrastare Giorgia Meloni e una richiesta di interferire, nelle elezioni italiane, rivolta alla sinistra, politica ed intellettuale, europea. Il richiamo all’antifascismo ha avuto grande successo presso i cd. influencer, che si sono subito associati in modo da dimostrare la propria democraticità. Ma si è trattato di appoggi che non hanno portato voti: il popolo italiano è abbastanza maturo per sapere che gli influencer vanno bene per suggerire le creme di bellezza, ma non per le scelte politiche. La seconda istanza ha avuto anch’essa una pronta risposta da parte, addirittura, anche di chi riveste ruoli istituzionali nell’Europa.

Ma, pure in questo caso, non sembra che l’iniziativa abbia portato voti. Anzi, probabilmente, ha suscitato solo fastidio il tentativo di far influenzare, dall’estero, le libere elezioni del popolo italiano. Il tentativo, poi, è apparso ancora più fastidioso essendo riferibile ad un partito, il Partito Democratico, che da oltre dieci anni governa senza aver mai vinto le elezioni e potendo solo contare su di un robusto rapporto con i Palazzi. Le elezioni, dunque, si sono svolte in una nebbia, nella quale era difficile distinguere e scegliere da che parte stare. Il conformismo di posizioni, che erano solo apparentemente contrapposte, è stato un incentivo drammatico a non andare a votare. Ciò tanto più che un ulteriore elemento comune ai vari partiti era il silenzio più completo su alcuni problemi urgenti del paese: quello del futuro dei giovani e quello della arretratezza, in cui è sprofondato il Mezzogiorno.

Il risultato è stato, da un lato, un assenteismo che ha sfiorato il 40% e, dall’altro, il fatto che, alla fine, secondo tutti gli esperti delle analisi del voto, ha avuto un ruolo prevalente, nella scelta di chi è andato alle urne, il carisma e la presunta affidabilità dei leader. Ma si tratta di una strada sulla quale occorre al più presto fermarsi e contro la quale vanno subito prese adeguate contromisure. Una democrazia che non si fonda più sulla scelta dei contenuti, ma esclusivamente sulla scelta dei leader e che è vicina a perdere la metà del proprio elettorato è una democrazia fragilissima, incapace di affrontare senza rischi i marosi di un’epoca economicamente e socialmente difficile come questa.