Non si ha memoria di un tempo in cui non siano state mosse aspre critiche alle modalità di svolgimento dell’esame di avvocato, accusato di essere ora troppo facile ora troppo difficile, eccessivamente aleatorio o rigoroso ad anni alterni, caratterizzato da scandali o da inchieste e via dicendo. Ciò ha portato all’attuale tortuoso percorso che vede quasi sempre i candidati meridionali giudicati dalle Corti di Appello settentrionali e viceversa, in cui spesso gli esiti sono più favorevoli per i secondi e meno per i primi, in un alternarsi di posizioni campanilistiche che si ripercuotono – come sempre – sui giovani. Si scontrano, infatti, due visioni diverse sull’accesso alla professione di avvocato.

La prima, più rigorosa, si fonda sulla considerazione che l’abilitazione debba essere meritocratica e assicurare la preparazione del giovane avvocato. La seconda, meno esigente, parte dall’assunto che l’abilitazione non è un concorso pubblico e non dà diritto a un posto di lavoro, pertanto la selezione è in concreto affidata al mercato. Il dibattito ferve, ma senza che si addivenga a una seria proposta di riforma e, nel frattempo, pletore di aspiranti avvocati si alternano nel tentativo di raggiungere l’agognato titolo. Con ogni probabilità le due posizioni eccedono in un senso e nell’altro, ma forse aiuterebbe sapere che in Paesi come Francia e Germania l’accesso alla professione forense si conquista all’esito di un percorso piuttosto complesso.

Nel primo caso è prevista una rigorosa selezione all’atto di iscrizione a una scuola di formazione professionale per avvocati, superata solo da un terzo dei candidati. Questi, poi, sono chiamati a seguire un percorso di studi specialistici della durata di 18 mesi, che permette di accedere a un esame finale. Nel secondo caso, invece, è previsto un periodo di formazione comune per tutte le professioni forensi al quale segue un esame finale particolarmente difficile e che non può essere sostenuto per più di due volte. Un secondo esame attende il giovane giurista al termine di un periodo di pratica retribuito. Alla prova dei fatti, gli avvocati in Italia sono 245mila (fonte Cassa Forense 2019), a fronte di poco più di 60mila unità in Francia e di 160mila in Germania. Nel 2001, in Italia, furono istituite le Scuole di specializzazione per le professioni legali con l’intento di assicurare una preparazione comune e uniforme alle tre principali figure giuridiche (magistratura, notariato e avvocatura), affidate all’università. Il tentativo è stato lodevole ma poco audace, poiché il superamento dell’esame finale avrebbe dovuto costituire un vero e proprio canale di accesso diretto alle professioni.

Così non è stato, visto che solo per gli aspiranti magistrati costituisce titolo per iscriversi al concorso pubblico, mentre nel caso delle professioni di avvocato e notaio dà la possibilità di ridurre di poco il tempo della pratica. Ad oggi l’esperienza è stata svuotata nella sua sostanza soprattutto a causa di logiche di categoria, poco condivisibili. Gli aspiranti magistrati preferiscono seguire il tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari, dal taglio più pratico e dalla minore durata, gli aspiranti notai iscritti alle Scuole, al secondo anno si distaccano e continuano il percorso presso l’Ordine, mentre i Consigli forensi offrono agli aspiranti avvocati corsi di preparazione finalizzati al superamento dell’esame.

Si è così sprecata l’occasione di garantire un percorso formativo comune in grado di far dialogare tra loro le principali professioni forensi, per il quale si sarebbe potuto sicuramente prevedere qualche aggiustamento (per esempio un maggiore taglio pratico delle lezioni), ma la cui bontà dell’idea di fondo non era discutibile. La questione è complessa e difficilmente affrontabile in questa sede ma si dovrebbe senz’altro partire da una rivisitazione dell’intero sistema, dal percorso di formazione universitaria sino alle modalità di svolgimento della pratica forense, che dovrebbe essere più rigorosa e soprattutto retribuita.