L’attacco alle leggi che nell’Occidente “civilizzato” ancora garantiscono, sia pure con molti limiti, il diritto a interrompere gravidanze indesiderate ritorna sistematicamente di attualità. Di recente la Corte Suprema americana ha fatto capire di essere disposta a riconoscere una legge restrittiva del Mississipi, mentre in Polonia si è discusso, oltre che di un innalzamento delle pene, fino all’ergastolo, per chi abortisce e aiuta ad abortire, anche di un Istituto per la Famiglia e la Demografia, che dovrebbe «sorvegliare le donne per capire se vogliono abortire o prendere la pillola del giorno dopo, perseguitare le famiglie arcobaleno, strappare i figli alle persone Lgbtq+, impedire divorzi» (Marta Lempart, co-fondatrice di Strajk Kobiet).

Ma si può parlare davvero di “attualità” riguardo a un fenomeno che ricompare puntualmente e con sempre maggiore virulenza, quanto più si allentano i vincoli e i pregiudizi con cui ci è stato consegnato da millenni di patriarcato? Non si tratta piuttosto di un’ossessione maschile che affonda le sue radici nell’ambiguo legame di amore e odio per quel corpo femminile che può dare la vita e la morte, minacciare la sopravvivenza del singolo come quella della società o della cultura a cui appartiene? Non si dovrebbe dimenticare che, prima che venisse approvata nel 1978 la Legge 194, in Italia l’ aborto era considerato un crimine “contro l’integrità e la sanità della stirpe”, e perciò come difesa della famiglia “naturale”, ma anche della “purezza etnica” del nostro Paese. Residui nazionalistici, per non dire razziali, sono rieccheggiati inequivocabilmente nei Family Day, nella propaganda del “movimento per la vita”, e nelle parole del senatore Pillon preoccupato della possibilità di estinguersi “come italiani”.

Non c’è dubbio che ad accendere in questi ultimi anni l’odio che spinge a criminalizzare le donne, ad accanirsi con leggi sempre più repressive e autoritarie sui loro corpi, è, per un verso, la loro maggiore libertà e consapevolezza nel voler trovare in se stesse il senso della loro vita, e non essere più “un mezzo per un fine” dettato da altri – nella sessualità come nella procreazione; per l’altro, sono le migrazioni, la presenza nel nostro paese di donne straniere più prolifiche delle italiane. La campagna per incentivare le nascite va, in sostanza, di pari passo con le prese di posizione contro l’aborto, volte entrambe a salvaguardare il destino della donna come madre, oggi vacillante sotto l’urto dei movimenti femministi in tutto il mondo. Eppure si parla ancora dell’aborto come “questione morale” o “questione femminile”, come se le donne si mettessero incinte da sole, e per leggerezza o sadismo decidessero poi di sgravarsi di quel peso. Che si chieda a gran voce la loro ribellione, che si pretenda il rispetto della loro sofferta decisione, che si sostenga il diritto all’autodeterminazione in fatto di maternità, si tratta pur sempre di proclami che parlano di un soggetto considerato di per se stesso debole, bisognoso di tutela e di rappresentanza, e, soprattutto, di un soggetto che porta in solitudine quel potere e quella condanna che è la capacità biologica di fare figli.

La relazione tra i sessi stenta a togliersi di dosso il peso della “naturalizzazione” e “privatizzazione” che ha subito, e ad essere assunta per quello che è: un problema politico di primo piano, l’origine stessa della separazione tra il corpo e la polis, tra biologia e storia, individuo e società. Fin dagli anni Settanta, si è presa consapevolezza che maternità e aborto sono legate a un modello di sessualità penetrativa e generativa, contrassegnata, all’interno del dominio storico dell’uomo, da un carico di violenza materiale e psicologica che non accenna a diminuire neppure in presenza di culture altamente civilizzate. Come si legge in uno dei brevi saggi di Carla Lonzi del 1971, «la donna gode di una sessualità esterna alla vagina, dunque tale da poter essere affermata senza rischiare il concepimento. L’uomo sa che il suo orgasmo nella vagina la donna lo accoglie più o meno coinvolta emotivamente e fisiologicamente, sa che in conseguenza di questo la donna può restare incinta… ugualmente l’uomo fa l’amore come un rito della virilità e alla donna accade di restare feconda nel momento stesso in cui le viene sottratto il suo specifico godimento sessuale».

Un’attenzione analoga al rapporto uomo donna, che sta a monte di tante gravidanze indesiderate la ritroviamo in un articolo che Rossana Rossanda scrisse per il manifesto il 7 maggio 1995, alla vigilia di una imponente manifestazione che si tenne a Roma il 3 giugno in difesa della legge 194. «È come se qualcosa spingesse uomini o chiese o stati a inchiodare il corpo femminile sul margine fra vita e morte nel quale per secoli lo hanno cacciato e il parto e l’aborto. Là dovrebbe restare o essere riportata la maledetta sessualità femminile? (…) Ma se scelta è, è scelta in prima istanza e in ultima della donna. Qualsiasi uomo che abbia saputo dalla donna – lui non può saperlo – di averne fecondato un ovulo, sa quel che accadrà a se stesso e a lei: a lui nulla, a lei, una rivoluzione. La maternità è un evento globale e lungo che in-veste una esistenza femminile, scompone ogni altro programma di realizzazione, ed esige mediazioni perché uno dei due non ne esca mutilato». Non ci sono anticoncezionali né politiche famigliari che riescano a impedire a un atto d’amore di trasformarsi nella realtà drammatica di una gravidanza non voluta. Se va salvaguardata la scelta della donna di poterla interrompere senza incorrere in sanzioni penali, non bisogna tuttavia dimenticare la limitatissima libertà che sembra ancora esserci nel rapporto più intimo tra i sessi, sia che essa derivi da antica soggezione, ignoranza del proprio piacere, esitazione a esigerlo da parte femminile, oppure da violenza sessuale manifesta da parte dell’uomo.

Limitarsi ad affermare il primato della donna nella procreazione, il diritto a decidere su una vicenda che trasforma non solo il suo corpo, ma la sua vita intera, tanto più quanto più “naturale” si continua a ritenere la cura materna dei figli (oltre che di mariti, genitori, suoceri, ecc.), vuol dire mettere al centro della scena pubblica, dello Stato e delle sue leggi, i due protagonisti dell’origine, la madre e il figlio, e sfocare fino a farlo sparire in una nuova rimozione quel rapporto uomo-donna che i movimenti femministi del novecento hanno portato faticosamente alla coscienza storica. Ma significa anche, purtroppo, offrire un’occasione facile alla misoginia di ogni tipo, e alle paure infantili più profonde di ogni individuo, per affermare il diritto del bambino a nascere, sulla base di quel gioco di identificazioni che agiscono quasi sempre inconsapevolmente e in modo diverso nella vita di ognuno.