Nel giorno in cui Elly Schlein si aggrappa al suo 23% nei sondaggi come fosse una vetta, Ernesto Maria Ruffini, ex direttore dell’Agenzia delle Entrate, rompe il silenzio e irrompe nel dibattito politico con un’ambizione chiara: unire i riformisti che non si riconoscono nel Pd. Un colpo al cerchio e uno alla botte? Tutt’altro. È una spallata elegante ma netta alla leadership della segretaria dem, che ha trasformato il “campo largo” in un campo minato, pieno di trappole ideologiche, immobilismi e ambiguità. Ruffini parla poco, ma chi lo circonda fa capire molto. Non un partitino personale, né un’OPA sul centrosinistra, ma un progetto federativo che aggreghi riformisti veri, amministratori locali, sindaci civici, delusi del Pd e nostalgici del Terzo Polo.

Il suo piano prende forma proprio mentre Elly Schlein continua a evocare un grande mare progressista dove «i fiumi confluiranno», ma senza spiegare chi guida la barca, né in quale direzione si vada. Il paradosso è evidente: mentre Schlein si riempie la bocca di unità e inclusività, il Pd resta inchiodato a una visione identitaria e minoritaria. Lo stesso Goffredo Bettini, uno dei suoi più influenti ispiratori, lo ammette candidamente: «Da anni siamo fermi al 20%, ora al 23 grazie al lavoro straordinario di Elly». Se il «successo» frutto del lavoro «straordinario» è questo, si va davvero smarrendo il senso della realtà, all’ombra del Nazareno. Il plafond elettorale infatti da lì in poi appare inamovibile. E decisamente insufficiente a sfidare il centrodestra, con Fdi che supera il Pd di quasi sei punti. Nel frattempo, Ruffini si muove in silenzio, costruendo reti civiche, parlando con i territori, affiancato da figure come Onorato e altri amministratori che sognano un centrosinistra pragmatico e non ideologico. Non cercano vetrine nei talk show, ma soluzioni concrete.

È una politica “di mestiere”, opposta alla narrazione identitaria di Schlein e Conte. E Matteo Renzi? Osserva e sorride, ma rilancia. In un’intervista, non a caso, affonda il colpo sulla “Melonilandia” delle chiacchiere e delle tasse record, ma riserva alla sinistra un’accusa ben più pesante: “La partita si vince sul ceto medio, non sulle bandiere ideologiche”. È il cuore del ragionamento: il centrosinistra non batte Meloni con i diritti civili sbandierati a corrente alternata, ma con un’agenda economica chiara e competitiva. Con riformismo, non con folklore. E dove si ferma Renzi, parte Ruffini. La cui novità rappresenta proprio quella credibilità tecnica, istituzionale, pragmatica che manca oggi tanto a Schlein quanto a Conte. L’ex capo dell’Agenzia delle Entrate – l’uomo che ha realizzato la fatturazione elettronica e la precompilata – è diventato, paradossalmente, un riferimento anche per chi oggi critica la pressione fiscale. E infatti Renzi lo sottolinea con malizia: “Meloni oggi si prende i meriti di riforme che osteggiava nel 2015”.

Segno che, dietro le quinte, il nuovo asse riformista si sta muovendo davvero. Elly Schlein, invece, risponde con metafore marine, mentre la sua nave resta in stallo. Si dice “aperta a ogni contributo”, ma nei fatti ignora o snobba ogni proposta che non venga dalla sua area. Ha costruito un partito che rifugge il compromesso e predica l’inclusione a parole, ma nei fatti esclude. Il potere di fare e disfare le liste, a due anni dal voto del 2027, le permette di tenere in scacco la minoranza interna. Il sospetto è che la segretaria dem, per paura di perdere il controllo, stia rinunciando a vincere. Perché se Ruffini e i riformisti raccolgono anche solo una parte del consenso che fu del Terzo Polo, lo scenario si riapre davvero. E il Pd, con la sua linea ambigua, rischia di restare spettatore.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.