Il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà
Addio al filosofo Mario Tronti, padre del marxismo operaista: fu il professore meno cattedratico che si possa immaginare
La contraddizione esistenziale di Mario Tronti – se si può usare questa espressione – in fondo altro non era che la traduzione personale del vecchio adagio di Gramsci, il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà: egli si interrogò per decenni – come tutti i grandi filosofi – sulla possibilità di un mondo nuovo, lo fece col rigore dello scienziato che mai mente a sé stesso e con la passione di chi auspica un avanzamento progressivo della propria ricerca intellettuale.
Tronti – piace ricordarlo oggi che ci ha lasciato alla bella età di 92 anni – è stato un filosofo di valore assoluto e un uomo gradevolissimo, modesto, sincero, onesto (forse Spinoza era come lui) e anche un uomo d’azione, un militante comunista, uno che andava al mercato della sua Ostiense a dare i volantini la domenica, a spendere serate nelle sezioni a discutere con commercianti, operai, studenti. Passeggiava vicino al Gazometro, in quel quartiere romano non bellissimo anche se oggi trendy, da solo come Montaigne a riflettere sulle cose, sul mondo. Fu il professore meno cattedratico che si possa immaginare. A tratti, fu un dirigente politico, persino un deputato e poi senatore che prendeva la parola nella “bomboniera” di Palazzo Madama con voce sommessa, in anni a noi vicini, parlando con passione di Europa e riforme.
Per i giovani degli anni Settanta e Ottanta, Tronti era un’autorità morale: senza spocchia, infilava un ragionamento su Hobbes dentro un intervento sulla situazione politica, una citazione di Marx parlando di Craxi. Altri tempi. Diremmo che Tronti è stato “il” marxismo italiano in tutte le sue ascese e cadute, rotture e ritrovamenti, sicché non è davvero semplice, e certamente al di fuori delle nostre forze intellettuali, ripercorrere con esattezza il percorso trontiano, ma per ora basti questo, senza tema di smentite: dopo la scoperta di Antonio Gramsci, la costruzione scientifica elaborata negli anni da Tronti è la più notevole del marxismo italiano.
Qual è il punto di fondo della sua ricerca? Sicuramente quello della scoperta, poi della verifica, poi della analisi critica, infine del ripensamento generale della centralità operaia vista non solo come elemento decisivo per la rivoluzione (qui il marxismo incrollabile di Tronti) ma come soggetto fondamentale per la messa in crisi del sistema capitalistico dal di dentro. Quando cercavamo di capire la sua opera principale, “Operai e capitale”, alla fine il succo che ne estraevamo – pur in tutta la sua riduzione semplicistica – era esattamente questo: il sovvertimento della società borghese è possibile solo dall’interno attraverso un processo complesso ed il centro di questa sovversione è nelle fabbriche e da lì deve essere costruito il potere dei lavoratori.
Venne chiamato “operaismo” tutto questo (con lui, Cacciari, Asor Rosa, Negri) ma era un po’ un’etichetta. Perché in Tronti (e in Asor, dal punto di vista della critica letteraria) era spuntata la lezione di Gramsci, la lettura della specificità italiana, l’intuizione di un mutamento “molecolare” nella società e l’idea della Rivoluzione italiana come grande fatto di popolo: che distanza dal bolscevismo! Eppure Tronti non dimentica, ancora negli anni Settanta, che l’avversario esiste, e ha tuttora il nome di “borghesia” intesa come classe che detiene il potere sostanziale, formale ed economico, e il problema teorico semmai è quello di re-inventare il soggetto antagonista, giacché nell’ultimo quarto di quello che egli chiamava “il piccolo Novecento” (quello “grande” era finito con la Seconda guerra mondiale) la classe operaia non bastava più. Come ha scritto pochi giorni fa Goffredo Bettini, che tanto gli fu intellettualmente vicino, “ciò che il padronato perde, recupera, con i resti, attraverso gli strumenti del governo, del potere, della diffusa statualità, della sapienza tecnico amministrativa, ereditata da un grande passato. La classe, dunque, deve confliggere anche lì: nel cuore dello stato e della politica. Con sagacia tattica, cultura e professionalità”.
Ma allora come costruire questa nuova soggettività diciamo così progressiva, su quali forze contare per riaggiustare l’indirizzo della lotta sociale e politica? Egli non fu abbacinato come altri dal movimentismo, nemmeno dal 1968 che non visse mai come momento rivoluzionario, tantomeno il 1977 e neppure i movimenti no global, perché restò fedele al Machiavelli tanto studiato che la lettura di Gramsci aveva rinvigorito, ed ecco il Partito comunista, pur con tante considerazioni critiche, persino nelle successive reincarnazioni, dopo la grande delusione degli anni Novanta del “riformismo fiacco”, quando scrive nel suo libro più cupo (“La politica al tramonto”, Einaudi, 1998) che “se si legge il destino del partito politico si trova la parola ‘fine’. La fine dell’idea di partiti rischia di trascinare con sé la fine dell’idea di sinistra. E contro il suo stesso destino che la sinistra deve lottare contro sé stessa” (pag. 120).
Successivamente il filosofo riprende un po’ di ottimismo riversando certe speranze pur scettiche sul Pd quando vide nel tentativo di Walter Veltroni e ancora dopo nel soggettivismo di Matteo Renzi momenti di protagonismo pur in un quadro interno e internazionale sempre più sfavorevole. Scrisse una bellissima lettera al seminario in suo onore che si tenne a Parigi l’11 giugno 2016: “Stiamo dentro questa terribile stretta: mai come oggi un altro mondo è necessario e mai come oggi un altro mondo non è possibile. Diciamo: non lo è per il momento. Quanto sarà lungo questo momento, non sappiamo. Qui torna il concetto, teorico-storico, di rivoluzione. Mi sono fatto un’idea, che vorrei avere il tempo di elaborare. La rivoluzione non è l’atto con cui si prende il potere, ma il processo con cui si gestisce il potere. Riformisti prima, rivoluzionari solo dopo”. Fiducioso e pessimista insieme, come in tutta la sua vita.
“Il pensare estremo – scrisse – l’ho imparato da Marx ma anche da tutte quelle forme di pensiero incomponibili con lo stato presente, inassorbibili dall’opinione corrente, irriducibili al senso comune di massa, alternative al buon senso intellettuale”. Accanto a questo “pensare estremo” c’è “l’agire accorto” – scrive ancora – “che ho imparato da Machiavelli, l’ho inseguito nei teorici della ragion di Stato, poi alla scuola dei Gesuiti, specialmente spagnoli, quindi nella forma politica del cattolicesimo romano, l’ho ritrovato in Max Weber e in Carl Schmitt”. Sempre sospeso tra analisi dura e scoperta del nuovo, tra riforme e rivoluzione, fino alla fine: “Temo di non fare in tempo a vedere il ritorno dell’altra bella espressione, Aufheben, superare conservando: che rimane a tutt’oggi la cifra realistica di una rielaborazione del concetto di rivoluzione.
© Riproduzione riservata