Triste è una società che accetta a fatica che si incrocino “normalità” e “diversità”. Due concetti assolutamente soggettivi, schiacciati dal peso opprimente delle convenzioni. Ancora più triste è quella società che non lascia liberi di incrociarsi nemmeno coloro che nella diversità, nell’apparente “minorità”, trovano un appassionante punto di incontro. Raramente un bambino con una disabilità viene richiesto e poi adottato da una famiglia, che ha tutti i crismi della “normalità”. I casi ci sono, ne conosco qualcuno, ma si contano sulle dita di una mano.

L’equazione mamma, papà, bambino paffutello ed in salute è abbastanza naturale. Non voglio dare alcun giudizio negativo, anzi, l’adozione è sempre e comunque una splendida notizia, per la famiglia e per il bambino adottato. Un bambino con disabilità è più facile, semmai, che possa essere desiderato da chi condivide l’essere diverso, un incrocio di differenze che mette insieme chi, in questa società, tende ad essere escluso. Ad un bambino di “serie b”, considerato così dalla maggior parte della società, seppure lo si nasconda abbastanza bene, non può che corrispondere quella che nell’immaginario collettivo viene considerata una famiglia di “serie b”: single e coppie gay. Tra le famiglie da scegliere occupano le ultime pagine del catalogo e condividono questa condizione con i bambini con disabilità intellettiva, o mutilati, o sordi, o ciechi, o anche abusati, maltrattati, destinati a vivere in comunità molto a lungo, a volte per sempre, perché nessuno li vuole.

Cosa può curare le ferite di un bambino se non l’amore di una famiglia? Nel nostro Paese, che vive di stereotipi e, purtroppo, di grandi contraddizioni, i Tribunali diniegano spessissimo l’affido a coppie non convenzionali, lasciano in attesa single e coppie gay, ma soprattutto lasciano quei bambini in strutture che sono manchevoli dell’unico vero antidoto alla sofferenza: le braccia di chi da piccolo ti sorregge. Gli abbracci e i baci spontanei. Si tratta di persone che hanno messo a disposizione il cuore, la casa, la volontà di farsi carico di tante responsabilità, perché è quello crescere un figlio, specie se fragile. Si tratta di bambini che nessuno vuole, dicevamo, e che forse una famiglia non ce l’avranno mai.

Ci sono casi a lieto fine, di adozioni andate bene, ma sono appunto casi isolati. Si tratta di chi, con profonda forza, ha deciso di dare un futuro rassicurante a un minore che era solo. Oggi sono una famiglia, che affronta ogni giorno ostacoli, che si sorprende nel superarli e nel ritorno immenso di un affetto che non troverà mai fine. Perché possono anche essere questo i figli, potenza salvifica vicendevole.

Leggere ed ascoltare storie di bambini chiusi in comunità, quando ci sono schiere di “famiglie” considerate non convenzionali che potrebbero offrire amore e sostegno economico, è desolante. Persone scartate in attesa di una coppia “normale”, con un solo unico risultato: i ragazzi restano lì e devono bastare a se stessi.

Sono 23mila i minori negli istituti che fanno parte della categoria “bisogni speciali”, l’iter è quasi sempre uguale: dopo un affido che va bene qualcosa si inceppa, i servizi sociali stoppano tutto. Di queste storie ce ne sono troppe e hanno tutte lo stesso sapore amaro di un amore mai nato, tranciato, rispedito indietro e tappato. Una fontana a cui non è concesso di sgorgare. Non si è liberi di stare insieme nemmeno tra persone considerate di “serie b”.

Davide Faraone

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