Lo scandalo
Palamaragate, l’Anm attacca l’inchiesta del Riformista ma le domande restano
Con un comunicato diramato alla vigilia di Capodanno, l’Anm del capoluogo umbro ha voluto esprimere “completa fiducia sulla correttezza e sulla trasparenza dell’operato dei magistrati della Procura di Perugia”.
Lo ha fatto dopo notizie su un’inchiesta “riguardante magistrati degli uffici giudiziari di Roma nella quale, all’esito delle indagini, sarebbero spariti o verrebbero celati una parte dei contenuti delle copie forensi dei cellulari sottoposti a sequestro nello stesso procedimento”. Seguono poi frasi di rito in cui si “stigmatizza con fermezza tutte quelle rappresentazioni delle vicende processuali che adombrano in capo ai magistrati che svolgono le indagini fini o obiettivi diversi da quelli strettamente giudiziari”.
Dulcis in fundo, si “esprime completa fiducia sulla correttezza e sulla trasparenza dell’operato dei magistrati della Procura di Perugia, già vittime di attacchi e di strumentalizzazioni, impegnandosi a vigilare per assicurare la serenità, la dignità e l’indipendenza della magistratura, nell’adempimento del proprio servizio”.
Senza mai citarlo, il riferimento è al Riformista, l’unico giornale nel panorama nazionale che ha manifestato in questo periodo alcune perplessità sulle modalità di conduzione dell’indagine a carico di Luca Palamara. Indagine che ad oggi ha prodotto tre risultati: l’annullamento della nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma, il ribaltone al Csm, con il cambio dei rapporti di forza fra le correnti, la cacciata di Palamara dalla magistratura.
Fra le varie perplessità questa settimana il Riformista ha segnalato il “ritardo” della Procura di Perugia nel trasmettere (o non trasmettere) i dati contenuti nel cellulare di Palamara al Csm e alla Procura generale della Cassazione. Per chi si fosse perso qualche puntata del Palamaragate, ecco un breve riassunto.
Il procedimento a carico di Palamara nasce da un fascicolo trasmesso dalla Procura di Roma, l’ufficio dove prestava servizio l’ex presidente dell’Anm, ai colleghi di Perugia, competenti per legge ad indagare sulle toghe della Capitale. Indagando su Fabrizio Centofanti, un faccendiere romano amico di decine di magistrati e finito al centro del “Sistema Siracusa”, l’organizzazione nata per aggiustare i processi e pilotare le sentenze al Consiglio di Stato, i pm di Roma scoprono che egli ha stretti rapporti con Palamara.
A maggio del 2018 il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, parlando con il pm del suo dipartimento Stefano Rocco Fava, comunica che “l’informativa depositata dalla guardia di finanza sui rapporti fra Palamara e Centofanti l’abbiamo mandata a Perugia”. La nota, senza ipotesi di reato, è firmata anche dagli aggiunti Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli.
Perugia inizia a svolgere accertamenti arrivando ad ipotizzare, dopo qualche mese, che Palamara, quando era al Csm, avesse preso una mazzetta di 40 mila euro per nominare il pm Giancarlo Longo procuratore di Gela. Tale nomina, in realtà, non avverrà mai ma l’ipotesi di reato di corruzione legittimerà, ai primi mesi del 2019, le intercettazioni telefoniche e l’utilizzo del virus trojan sul cellulare di Palamara. Sul punto, però, una recente sentenza della quinta sezione della Cassazione, relatore Giuseppe Riccardi, ha affermato che il trojan per i reati di corruzione è utilizzabile solo dal primo settembre dello scorso anno. Ciò renderebbe inservibile il materiale raccolto dai pm umbri. Ma questo aspetto, ai fini della ricostruzione temporale, al momento non è importante. Ci torneremo più avanti.
Proseguiamo. Dalle intercettazioni telefoniche e dalle captazioni trojan sul cellulare di Palamara non emergono episodi di corruzione a carico di quest’ultimo. Quello che emerge con evidenza è il funzionamento del “sistema” delle nomine e degli incarichi a Palazzo dei Marescialli, dove Palamara era il leader incontrastato. Gli investigatori evidenziano, poi, una serie di rapporti “opachi” fra Palamara e Cosimo Ferri, storico leader di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria, e attuale parlamentare renziano. L’ipotesi della tangente per la nomina di Longo evaporerà fin da subito e i pm ne chiederanno l’archiviazione a conclusione delle indagini preliminari. Il 29 maggio del 2019 l’indagine sfuma a causa di una fuga di notizie con la pubblicazione di tre articoli, sostanzialmente identici, su Repubblica, Corriere e Messaggero.
Il giorno successivo i pm umbri decidono di sequestrare il cellulare di Palamara, disponendo l’estrapolazione di tutti i dati contenuti. L’operazione di backup avviene con successo il 31 maggio ad opera dei finanzieri del Gico, il reparto che sta conducendo le indagini. Passa qualche giorno ed il 3 giugno i pm trasmettono al Csm, e quindi alla Procura generale della Cassazione, le intercettazioni e le captazioni effettuate con il trojan. Non trasmettono, però, quanto contenuto sul cellulare, quindi le chat WhatsApp e i messaggini sms.
Ciò avverrà in parte solo dopo un anno, alla fine di aprile del 2020, con la chiusura delle indagini. Ricevute le chat WhatsApp, il pg della Cassazione Giovanni Salvi nominerà una “task force” per esaminarle ai fini dell’esercizio dell’azione disciplinare.
Lo spaccato che emerge dalla lettura delle chat non è edificante, con centinaia di magistrati che si rivolgevano a Palamara, anche ai limiti dello stalking, per auto sponsorizzarsi per un incarico o per denigrare il collega che aspirava al medesimo incarico. Per Salvi l’attività di auto sponsorizzazione con il consigliere del Csm verrà ritenuta, con una apposita circolare, legittima ed esente da profili di rilevanza disciplinare. Perché, ed è questo il dubbio sollevato dal Riformista l’altro giorno, tale materiale non è stato trasmesso subito al Csm e alla Procura generale? I pm umbri per le loro attività investigative hanno utilizzato a piene mani sia le intercettazioni che le chat. Avevamo citato il caso del funzionario di polizia Renato Panvino, il capo centro della Dia di Catania, interrogato l’8 luglio del 2019 a Perugia, secondo la Procura colui che acquistò un monile, probabile prezzo di una corruzione, per conto di Palamara.
Ma come non ricordare un altro caso, decisamente più clamoroso, riguardante il giudice Massimo Forciniti, già consigliere del Csm con Palamara e ora presidente di sezione penale a Crotone. Forciniti viene interrogato dai pm di Perugia titolari del fascicolo Gemma Miliani e Mario Formisano il 4 ottobre del 2019.
I pm gli fanno vedere le sue chat con Palmara e gli chiedono, fra l’altro, chiarimenti sul funzionamento del Csm dove “molte cose state decise dal cerchio magico” del magistrato romano. A farne parte Legnini (Giovanni, vice presidente in quota Pd, ndr), Fracassi (Valerio, esponente di punta di Area, il cartello progressista, ndr), Balducci (Paola, laica in quota Sel, ndr) e Fanfani (Giuseppe, laico in quota Pd). Un “cerchio magico” che avrebbe cercato di “orientare” l’attività dell’organo di autogoverno delle toghe.
“Terminata la consiliatura (Palamara) si è avvicinato all’area moderata di Unicost, di cui non faceva parte, credo che tale sua scelta sia derivata dai suoi accresciuti rapporti con Ferri. Ritengo si sia posto come intermediario tra i colleghi di Unicost ed Mi all’interno del nuovo consiglio”, puntalizza Forciniti.
Se i pm avessero proseguito nella lettura della chat fra i due magistrti avrebbero “scoperto” l’oggetto dell’attuale incolpazione disciplinare scritta da Salvi per la toga calabrese qualche mese fa. Forciniti “usando strumentalmente la qualità di componente del Csm perseguiva il fine di conseguire l’ingiusto vantaggio (per se stesso) della abrogazione” della norma che impediva ai consiglieri uscenti di concorrere subito per incarico direttivo, “sollecitando la presentazione e l’approvazione dell’emendamento alla legge di stabilità 2017”.
Salvi prosegue: “Nell’occasione, dopo avere ispirato e messo a punto il testo dell’emendamento” avviava “varie interlocuzioni con parlamentari della Repubblica (tra cui l’onorevole Donatella Ferranti, allora presidente della Commissione giustizia della Camera in quota Pd, magistrato, ndr)”. Le interlocuzioni con i politici della maggioranza sarebbero state finalizzate “ad attuare una strategia idonea a superare le obiezioni delle forze politiche che sostenevano il governo nonché l’atteggiamento critico dello stesso ministro della Giustizia (il dem Andrea Orlando, ndr)”. In tal modo interveniva “occultamente nello svolgimento dell’attività legislativa”, spendendo la qualità di magistrato fuori ruolo, “per conseguire il vantaggio ingiusto”. Accusa gravissima per un magistrato.
Se la Procura di Perugia avesse trasmesso fin da subito tutto il materiale contenuto nel cellulare di Palamara, i procedimenti disciplinari a carico dei magistrati che si messaggiavano con quest’ultimo sarebbero iniziati un anno prima e molte delle ultime nomine del Csm avrebbero avuto (probabilmente) un esito diverso.
Questo aspetto non è una “fissazione” del Riformista, avendolo sempre sostenuto, inascoltato, il pm antimafia Nino Di Matteo e ora consigliere del Csm: “Perché non possiamo (ai fini degli incarichi, ndr) valutare le chat? Con le conversazioni di terzi diamo ergastoli, indaghiamo politici ed amministratori”.
Ecco, forse il problema è proprio questo: con Palamara non chattavano dei comuni mortali ma dei signori magistrati della Repubblica Italiana.
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