Alla fine, l’allarme lanciato dagli Usa è diventato realtà. Ieri un attentatore suicida si è fatto esplodere in mezzo alla folla radunata all’esterno dell’aeroporto di Kabul, nei pressi del Gate ‘Abbey’. La folla pacifica era in attesa del controllo dei documenti per l’ingresso allo scalo. L’attentato è stato seguito da diversi colpi di arma da fuoco. Poco dopo una seconda esplosione: questa volta nei pressi dell’Hotel Baron, un albergo dove risiedono cittadini americani. Foto e video mostrano le immagini di vittime portate vie sulle carriole. Nel momento in cui scriviamo, si parla di 90 morti, tra civili afghani, militari e talebani, e centinaia di feriti. Colpiti anche tre marines americani. Tra le vittime ci sono anche bambini.

Ma si tratta di un bilancio parziale: il conteggio finale potrebbe essere ben più grave. Già accolti “oltre 30 feriti”, mentre “altre sei persone erano già morte all’arrivo”, si legge in un tweet di Emergency, l’ospedale fondato da Gino Strada. Le vittime di ieri si sommano ad altre circa 50 persone che sarebbero morte negli ultimi giorni all’aeroporto di Kabul secondo quanto riferito da Dmitry Zhirnov, l’ambasciatore della Russia in Afghanistan. Immediatamente dopo le esplosioni, il presidente Usa Joe Biden presidia l’emergenza dalla Situation Room, alla Casa Bianca, in compagnia del segretario alla Difesa Lloyd Austin e del segretario di Stato Antony Blinken. «Un’esplosione grande, fortissima, violenta. L’abbiamo sentita bene, veniva proprio dal punto in cui si trovavano gli americani, al di fuori dell’aeroporto. Io e la mia famiglia eravamo lì vicino coi nostri due bambini, ci stiamo da quattro giorni in attesa di essere imbarcati su un volo che da Kabul ci porti in Italia. Tanti i civili come noi morti, chi ha potuto come noi è fuggito con un taxi il più lontano possibile».

Questo il racconto all’Adnkronos di Sayed, ex interprete e capitano dell’esercito afghano, pochi minuti dopo l’attentato all’aeroporto di Kabul. Tra i profughi, che vedono morti e feriti tra i connazionali in fuga, prevale la paura di non poter più lasciare il paese. Anche perché, subito dopo l’attacco, tutti i gate dell’aeroporto sono stati chiusi. Proprio ieri, peraltro, diversi paesi occidentali – Canada, Belgio, Polonia, Danimarca, Olanda – hanno completato le operazioni di evacuazione. Il primo a confermare l’attentato è stato John Kirby, il portavoce del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Mentre i leader talebani si affrettano a precisare che la sicurezza della zona era un compito degli americani. Da giorni le autorità Usa mettono in guardia da possibili attacchi dell’Isis-K. Ciò giustifica la fretta di Joe Biden di lasciare il paese. James Heappey, sottosegretario alle Forze armate britanniche, aveva avvertito ieri mattina che la minaccia di un attacco terroristico all’aeroporto di Kabul era “molto imminente, molto credibile e molto letale”.

Le autorità americane ieri avvertivano: “Oggi 26 agosto, credibile minaccia terroristica all’aeroporto di Kabul. Non andate allo scalo”. In previsione di questo rischio, l’ambasciata degli Stati Uniti a Kabul sollecita dall’altro ieri i cittadini statunitensi in Afghanistan a non recarsi in aeroporto. Già tre gate ieri mattina risultavano chiusi. Ma nonostante l’allerta, la folla ha continuato a premere per raggiungere l’imbarco. Nella mattinata, pochi minuti dopo la partenza da Kabul, un C130 italiano, impegnato nell’operazione militare di evacuazione Aquila Omnia, era stato costretto a una manovra diversiva a causa di alcuni colpi di arma da fuoco. Panico tra i passeggeri: a bordo c’erano alcuni giornalisti e 98 civili afghani evacuati, che hanno poi raggiunto Kuwait city e che presto giungeranno in Italia. Nessun danno al velivolo: secondo le ricostruzioni, i colpi non erano diretti contro l’aereo italiano in partenza, ma erano stati sparati per disperdere la folla in aeroporto.

Poco prima dell’attacco kamikaze in aeroporto, Zabihullah Mujaid, portavoce dell’autoproclamato emirato islamico, aveva definito “non corretta” la notizia di un rischio di attentati da parte dell’Isis. Viceversa, in una intervista al New York Times, aveva criticato gli Stati Uniti e i Paesi occidentali accusandoli di privare il Paese di risorse umane preziose come medici, professori o ingegneri. «Negli Stati Uniti queste persone potranno divenire al massimo lavapiatti o cuochi. Tutto ciò è disumano». Allo stesso tempo, aveva negato l’intenzione del nuovo regime di compiere vendette contro gli oppositori o di stabilire rigide norme per le donne. Il portavoce talebano ha nuovamente ribadito che, anche dopo il ritiro delle forze straniere, potranno lasciare il paese solo le persone munite di documenti validi: «Coloro che vogliono partire necessitano di passaporti e visti per i Paesi in cui stanno andando. Se i loro documenti sono validi, non chiederemo cosa facevano prima». Tradotto, significa che nessun civile afghano potrà più abbandonare il paese. Questo il clima in Afghanistan: una conferma di tutte le preoccupazioni che assillano la diplomazia internazionale.

Da una parte, c’è il giro di vite che il regime jihadista eserciterà su diritti e libertà delle persone. Lo stesso Mujaid ha dichiarato: «La musica è proibita nell’Islam, ma speriamo di poter persuadere le persone a non fare queste cose, invece di reprimere questi comportamenti». I timori riguardano soprattutto la libertà e la dignità delle donne. Non a caso sul tema è in corso una riunione del G20 a Santa Margherita Ligure. Come ha avvertito Mario Draghi nel messaggio di saluto ai rappresentanti degli altri paesi, «non dobbiamo illuderci: le ragazze e le donne afghane sono sul punto di perdere la loro libertà e la loro dignità, di tornare alla triste condizione in cui si trovavano vent’anni fa. Il G20 deve fare tutto il possibile per garantire loro libertà e i diritti fondamentali, in particolare il diritto all’istruzione».

Dall’altra parte, come annunciano gli attentati di ieri, non soltanto appare che i talebani non possono – o non vogliono – garantire la sicurezza, ma diventa sempre più probabile la ripresa dei rapporti con le centrali del terrorismo islamico. In un’intervista trasmessa mercoledì scorso da Nbc News, Zabihullah Mujaid ha detto che non c’era “nessuna prova” che Osama Bin Laden fosse coinvolto negli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001: «Quando Osama bin Laden è diventato un problema per gli americani, era in Afghanistan. Sebbene non ci fossero prove che fosse coinvolto». Difficile oggi credere, come promette Mujaid, che «il suolo afghano non sarà usato contro nessuno». Bisogna ricordare che talebani hanno fornito un porto sicuro in Afghanistan a Bin Laden, che aveva combattuto con i mujaheddin contro l’Unione Sovietica negli anni 80 mentre costruiva la rete terroristica di al-Qaeda.

Dopo gli attentati del 2001 contro le Torri gemelle, concepiti da Bin Laden, gli Usa chiesero ai talebani di consegnarlo e di smantellare i campi di addestramento dei terroristi. Che, però, si rifiutarono. Secondo il Pentagono, la vittoria dei talebani potrebbe aiutare la rinascita di al-Qaeda. Sebbene il gruppo sia molto indebolito dal 2001, i suoi combattenti rimangono in Afghanistan. Ad aprile, l’intelligence Usa ha dichiarato al Congresso che al-Qaeda «continuerà a pianificare attacchi e cercherà di sfruttare i conflitti in diverse regioni». Nel giugno scorso, l’Onu avvertiva che i talebani e al-Qaeda «rimangono strettamente allineati e non mostrano alcun segno di rottura dei legami». Ben 15 province dell’Afghanistan su 34 ospitano oggi cellule di terroristi. Centinaia di membri del gruppo Isis-K si trovano nei dintorni di Kabul. Gli attacchi molto probabilmente proseguiranno nei prossimi giorni.

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