Nell’Italia che per fortuna registra un boom di arrivi turistici ma non vi adegua i suoi servizi (ormai per trovare un taxi serve chiamare “Chi l’ha visto”, pessimo biglietto da visita), sarebbe bene riprendere a pensare al domani e allo sviluppo per viverlo da protagonisti anziché comparse. A cominciare dalle autostrade. In attesa che Matteo Salvini rilanci il progetto della realizzazione della Tirrenica, fregandosene delle resistenze in abiti di lino all’altezza di Capalbio, ci sono sessanta miliardi pronti da investire.

Di chi sono? Dei concessionari privati, quelli dipinti come cattivoni da mezza politica italiana, Toninelli in testa (quello che nel 2018 raccontava che molti imprenditori gli decantassero le lodi del tunnel del Brennero allora inesistente e che sarà pronto nel 2032, ispirato dal Blog delle Stelle che sosteneva che l’ipotesi del crollo del Ponte Morandi fosse una “favoletta del partito del cemento”, per motivare la realizzazione “dell’inutile Gronda”).

L’Italia ha bisogno di nuove infrastrutture per sfruttare le occasioni prossime venture e fare il pieno di nuovi posti di lavoro. E a tanto – appunto, 60 miliardi, secondo Aiscat – ammonta la cifra che nei prossimi 15 anni i concessionari autostradali sarebbero in grado di investire, senza ulteriori interventi da parte dello Stato. Interessante. La rete autostradale è oggi la principale infrastruttura del Paese per mobilità di merci e persone. Ma -specchio perfetto di un’Italia prima rampante e ambiziosa, poi rinunciataria e rannicchiatasi a mo’ di catenaccio – ha fatto parecchi passi indietro, da quando nel 1970 eravamo largamente primi in Europa per chilometri di autostrade: 6.000; quanti quelli in Germania, con la Francia ferma a 3.000 e la Spagna appena a 1.000. Da allora, scelta politica assai discutibile, ci siamo piantati, e siamo retrocessi dietro a tutte e tre (oggi l’Italia ha poco più di 7.000 km di autostrade, quindi solo mille in più di 50 anni fa, contro i 12.000 della Francia, i 14.000 della Germania e i 15.000 della Spagna, autrice di un balzo poderoso). Non solo: in un paese dall’orografia complessa come il nostro, le autostrade hanno bisogno di continua manutenzione e di ringiovanire.

Certo, le società concessionarie autostradali hanno effettuato manutenzioni ordinarie per 15 miliardi di euro, e investimenti di ammodernamento e manutenzioni straordinarie per 28, negli ultimi 13 anni; ma aprire un cantiere per manutenerle significa strozzarne la circolazione, creare disservizi e scomodità agli automobilisti. Il tutto, sui percorsi più complessi d’Europa: la rete italiana conta 1200 chilometri di ponti e 800 chilometri di gallerie (il 50% del totale in tutta Europa); sei volte più che in Germania. Parliamo del 14 % del totale chilometri, contro una media europea del 2,6%. In più, è satura. E anche se qualche esempio positivo c’è (il risanamento del viadotto di Colle Isarco, tra Bolzano e il confine austriaco, terminato nel 2015 senza mai chiudere in quel tratto l’A 22), resta difficile fare manutenzione.
Certo, il modello concessionario-concedente (che io applicherei persino ai beni culturali figuratevi), all’indomani del tragico crollo del Ponte Morandi venne messo pesantemente, e populisticamente, in discussione. Più di qualcuno gridava contro l’avidità dei concessionari privati e reclamava il rientro in campo dello Stato nella gestione autostradale.

Come se lo Stato facesse le cose meglio del privato, ahahahah… a nulla valendo l’obiezione che se lo Stato, avesse gestito così bene, come mai erano nati concessionari privati? E perché oggi dovrebbe farlo meglio di prima, se non è in grado nemmeno di controllare il concessionario cui affida la gestione dell’autostrada (e questo si vedrà presto, credetemi, anche nel processo per il crollo del Ponte Morandi stesso)? Le autostrade italiane se la cavano anche sulle tariffe: in Francia si pagano 10 centesimi a chilometro, in Spagna di più, qui quasi 8. In Germania le autostrade sono gratis, ma senza pedaggio il costo di manutenzioni e investimenti grava interamente sulla fiscalità generale, leggasi tasse, che paga anche chi l’autostrada non la usa.

Una proposta riformista per consentire la manutenzione per autostrade più sicure e per decongestionare il traffico nei giorni da bollino nero, risparmiando drammi e morti: approfondite l’idea delle tariffe differenziate? Cioè: fasce di prezzo variabili in base alle giornate e agli orari in cui si viaggia. Chi viaggia di notte paga di meno, ad esempio. Il traffico si distribuirà tra chi vuol guidare scontato, e chi a prezzo pieno. Oggi, rispetto al 1980, c’è il 154% di traffico in più, anche se abbiamo per fortuna il 72% di morti in meno (anche grazie a una maggior qualità di asfalti e guard-rail, o al tutor). Ma resta moltissimo da fare, e servono investimenti che è difficile chiedere allo Stato (che li chiederebbe peraltro a sua volta a noi, sotto forma di tasse).

Servono nuove autostrade (il passente di Bologna, la Gronda di Genova, la Cispadana, per dirne alcune) e tecnologicamente più avanzate. Le nuove rotte permetteranno allora anche la manutenzione di quelle esistenti (vedi valico di Firenze) e creeranno lavoro. E se davvero il Mediterraneo tornerà centrale nei rapporti commerciali internazionali (il potenziamento del canale di Suez sembra confermarlo) è immaginabile che il traffico italiano aumenti, anziché’ diminuire. O abbiamo le infrastrutture necessarie, o perdiamo un’occasione di lavoro e ricchezza. Altro che abolire la povertà.

È ora di fare dell’intermodalità una realtà: autostrade, certo, ma anche treni alta velocità e vie d’acqua possono sfondare. Poi sarà il turno della tecnologia: con la guida autonoma e connessa (ci sono progetti pilota straordinari) si potranno abbattere le 3.000 vittime che ogni anno piangiamo, e distribuire molto meglio il traffico. Che con l’elettrico potrà arrivare a emissioni zero. Allora sì che avremo realizzato la massima fordiana per cui: “Il progresso è tale solo se per tutti”. Avanti.

Andrea Ruggieri

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