Se c’è un elemento naturale strettamente dipendente dalle infrastrutture, questo è l’acqua. Che va prelevata, controllata, distribuita, utilizzata, depurata dal servizio idrico integrato nato con la benemerita legge Galli numero 36 del 1994. È talmente evidente lo stato disastroso di una parte della nostra rete idrica, con clamorosi disservizi in particolare verso Sud rilevati dal ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, al convegno “Sos Acqua” organizzato da Enea e Arera, evidenziando perdite al 40%, mancato aggiornamento di normative, carenza di strategie, infrastrutture e tecnologie, a fronte di impatti devastanti del cambiamento climatico.

Il servizio idrico integrato utilizza oggi circa il 20% dell’acqua complessivamente prelevata, il resto va per il 51% in agricoltura, il 22% nell’industria, il 4% idroelettrico e il 3% nella zootecnia. Ma se ne preleva 9,5 miliardi di metri cubi, ne arrivano ai rubinetti 5,2. Sono tanti i perché di questa perdita di risorsa. Il primo è nell’incidenza percentuale dell’investimento per le infrastrutture idriche sul totale della spesa pubblica primaria annua nazionale, con un valore pari all’1,2%, ridotta ancora dal 2019.

Se alle perdite aggiungiamo anche 3 italiani su 10 non ancora allacciati a un depuratore o ad una rete fognaria neanche fossimo un Paese in via di sviluppo, e per questo l’Italia versa ogni santo giorno 145mila euro nelle casse Ue per le prime due condanne della Corte di Giustizia europea già comminate su quattro procedure di infrazione, abbiamo il quadro dell’arretratezza indegna del paese degli inventori di acquedotti e cloache.

Il secondo motivo è nel trascinamento dei postumi del referendum sull’acqua, dell’onda emotiva che portò al voto del 12 e 13 giugno 2011 ben 26 milioni di italiani con i Sì che furono un botto da 95,35% ma sancirono che l’acqua già pubblica doveva essere pubblica, in piena confusione alimentata tra la risorsa acqua come bene comune per legge che nessuno osa mettere in discussione e i tubi e il lavoro per portarla ai rubinetti, tra le gestioni operative necessariamente industriali e sotto controllo pubblico e i “privati approfittatori e speculatori”, tra gli investimenti necessari e il “bieco profitto”. Da allora continua a galleggiare una sorta di rifiuto ideologico delle logiche industriali nel servizio idrico facendo danni soprattutto al Sud dove le infrastrutture si reggono in gran parte sui provvidenziali finanziamenti dal 1952 del Piano Marshall, poi della Cassa per il Mezzogiorno con il “Piano Regolatore Generale degli Acquedotti” con 19 “Schemi idrici” e “sub schemi regionali”. L’ultimo grande investimento pubblico nel settore delle acque.

Il servizio idrico integrato è oggi un comparto industriale performante e interamente sotto il controllo pubblico. L’obbligo di costituzione di un solo gestore per ognuno dei 92 ambiti ottimali in cui fu suddivisa l’Italia, oggi scesi a 62, con il meccanismo finanziario centrato sulla tariffa in grado di coprire i costi e di remunerare gli investimenti in maniera equa, ha superato storiche emergenze in due terzi dell’Italia. Ma 29 anni dopo, risalta la sua mancata applicazione ancora in terzo dell’Italia con i servizi peggiori: parte della Campania, Calabria e Sicilia. Sono 394 i gestori industriali di ambito del servizio idrico con otto multiutility quotate in borsa – le più grandi ACEA, A2a, IREN, HERA – e rappresentano quanto di meglio la politica ha saputo realizzare nel settore dei servizi pubblici locali. E resistono 1.560 gestioni comunali ancora in economia con 8,3 milioni di residenti, per il 77% al Sud con quote minori in Val d’Aosta, Liguria e Lombardia. Il settore, regolato dal 2012 dall’Autority ARERA, dimostra che laddove mancano aziende efficienti restano condizioni che ci fanno vergognare, a volte paragonabili a quelle di alcuni Paesi in via di sviluppo.

Ma emerge anche, con tutta evidenza, che l’autonomia finanziaria del settore non si può reggere con il solo scarico in tariffa di tutti i costi, e con il solo flusso delle bollette più basse dell’area Ue – circa 200 euro in media all’anno per una famiglia con consumi medi -. La nostra rete idrica lascia per strada il 40,7% dei 385 litri per abitante immessi giornalmente nelle reti di distribuzione, ma in alcune zone del Sud si immettono oltre 2 litri di acqua per averne 1, sulle isole 1,68 litri, nell’Italia centrale 1,70, nell’Italia nord-orientale 1,64 e nell’Italia nord-occidentale 1,38.

Perché questo livello di perdite? Perché la condizione della rete idrica è direttamente proporzionale al livello degli investimenti per manutenzioni, sostituzioni, riparazioni e rigenerazioni di tratti di condotte obsolete. E gli investimenti, a loro volta, sono strettamente dipendenti dal livello delle tariffe. Di fronte ad un fabbisogno ventennale stimato nei 62 piani di ambito intorno ai 65 miliardi di euro, le bollette attuali permettono di investire in media nazionale nelle gestioni industriali 49 euro per abitante all’anno nel Nord-Est, 56 euro nel Nord-Ovest, 61,5 euro nel Centro, mentre al Sud appena 26 euro, e nelle 1.560 gestioni comunali nemmeno 8 euro, il nulla. Tutta l’Europa ci batte con una spesa media di 80 euro per abitante in Germania, 88 in Francia, 102 in Gran Bretagna, 129 in Danimarca. Ciò significa che con l’attuale tasso di rinnovo della rete, inchiodato ad appena 3,8 metri all’anno per ogni chilometro di condotte di acquedotto a fine vita, calcola Utilitalia, che solo tra 250 anni raggiungeremmo livelli di perdite “europee” intorno al 10%.

Le perdite sono poi direttamente proporzionali alle condizioni strutturali della rete. La penisola è sotto-attraversata da oltre 550mila chilometri complessivi di tubi che trasportano acqua con la posa del 60% risalente a oltre 30 anni fa, e con il 25% risalente a 80 anni fa. La rete fognaria ha invece una lunghezza complessiva nazionale di circa 1 milione di km. I fabbisogni sono notevoli. Oltre 200mila chilometri di rete sarebbero da rigenerare, riparare o rottamare e sostituire, e servirebbero oltre 50mila chilometri di nuove reti, 30mila per l’acqua e 20mila per le fognature. Coprire i costi di questa modernizzazione è impossibile senza il supporto degli investimenti pubblici.

Sapendo che la “bolletta dell’acqua” è ancora sconosciuta in alcune aree del Sud, e la tendenza consolidata dei sindaci cui spetta definirla è di non aumentarle, è inutile farsi troppe illusioni pensando di risolvere i problemi di acquedotto di circa il 15% di italiani e quelli di depurazione di circa il 30%. Servono investimenti pubblici e serve considerare le reti dell’acqua strategiche e al pari delle reti stradali, autostradali, ferroviarie e digitali. E serve uno scatto d’orgoglio del Sud che non riesce a spendere risorse a fondo perduto – dal 2011 circa 5,6 miliardi di euro per fognature e depuratori – per ritardi regionali e comunali.