Ci saranno senz’altro futuri aggiornamenti, ma la cosa al momento sta così: Renzi e Calenda sono in rottura prolungata. Per regolamento, quando i cavalli rompono a lungo vengono squalificati e devono abbandonare la corsa. Ma questo negli ippodromi, non in politica. Che invece concede fino all’ultimo di rimanere in pista.

Il fatto è che tutti i ragionamenti, i torti e le ragioni, i commenti e le dichiarazioni non sembrano appartenere per davvero alla politica, ma a un insieme di valutazioni a volte personali e umorali, altre volte astratte e moralistiche, che di cultura politica ne rivelano poca. Sulla base dei programmi e del posizionamento, Italia viva e Azione le diresti vicine: sono entrambe forze liberali, europeiste, riformiste, allergiche ai nazionalismi e ai populismi che a destra e a sinistra tengono il campo.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca Più Europa di Emma Bonino e Riccardo Magi, e infatti da Bonino era venuta l’idea di una lista di scopo, per gli Stati Uniti d’Europa, che consentisse alle diverse formazioni di convergere su una proposta comune, allo scopo di superare la soglia di sbarramento del quattro per cento. Proposta accolta da Renzi, ma non da Calenda. Il primo ha detto sì, il secondo ha detto no. Ma intanto, siccome nell’area di centro gravitano anche altre piccole formazioni – i socialisti di Enzo Maraio, i libdem di Andrea Marcucci, il partito progressista e paneuropeo Volt, la nuova Dc – la proposta è stata estesa anche a loro.

Nuova rottura. Federico Pizzarotti, ex sindaco di Parma e già grillino della prima ora (giova ricordarlo) – che oggi di Più Europa è il presidente e che, insieme al segretario, deve mettere la firma sotto le liste – ha detto che va bene tutto, ma non la nuova Dc dell’«impresentabile» Totò Cuffaro. E non basta ovviamente che il nome di Cuffaro non figuri sulla scheda, se poi ci si ritrova quello di suo genero Marco Zambuto, ex sindaco piddino di Agrigento con un passato in Forza Italia, inserito da Renzi tra i candidati in quota Dc. Siamo al gioco delle tre carte, twitta indignato Pizzarotti, e subito Calenda gli va dietro, rilanciando il tweet, incurante del fatto che un anno fa Zambuto era in prima fila con lo stesso Calenda, e con Enrico Costa, nella battaglia per la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio.

A questo punto il lettore ha tutto il diritto di perdersi, di non riuscire a fare lo slalom tra i paletti posti da dichiarazioni pregiudiziali, scalmane e risentimenti variamente assortiti. C’è una lite fra Renzi e Calenda, che va avanti da quel dì, e c’è una lite fra Pizzarotti e Bonino, che è invece roba fresca di giornata. Ma il risultato è lo stesso: la dimostrazione che quest’area non ha tenuta politica. Perché? Vietato avere nostalgie della prima Repubblica, ma se si torna indietro a quei tempi di vicende così non se ne trovano. Nei partiti di una volta, non poteva succede che rispetto alle linee politiche, ai contenuti, ai programmi, prevalessero simpatie o antipatie personali.

Ci si poteva odiare con tutte le forze, combattere politicamente dentro il partito e nelle urne, farsi lo sgambetto persino negli appuntamenti più solenni e coltivare manipoli di franchi tiratori per impallinare nel voto segreto l’avversario di turno, ma, se l’orizzonte politico e ideologico era comune, si rimaneva nella stessa barca, per un senso delle priorità che non impallidiva neanche di fronte alle ostilità più irriducibili. Nel racconto di Marco Follini, che alla Democrazia cristiana ha dedicato un libro di rara saggezza, le correnti facenti capo ai notabili di partito si combattevano «mettendo in perenne movimento la giostra delle rivalità e delle ambizioni personali» ma dentro un quadro che è sempre rimasto unitario. Nessuna idealizzazione: viste dall’esterno, scrive Follini, le correnti sembravano una «bolgia dantesca», ma dall’interno assicuravano comunque un «principio d’ordine», cioè un’idea di partito.

Tra i comunisti, il frazionismo veniva considerata un crimine imperdonabile, la qual cosa escludeva la formazione di correnti interne, ma non impediva l’articolazione per aree e sensibilità anche molto diverse, che poterono andare dai filosovietici agli euro-atlantisti, ma che tuttavia fino alla caduta del Muro rimasero insieme in nome dell’unità del partito.

Oggi, invece, non c’è una sola forza politica robusta abbastanza da sopportare una vita interna davvero articolata, e non c’è – almeno a sinistra – nessuna coalizione, campo largo o centro stretto, che lavori insieme coltivando una prospettiva di medio-lungo periodo. La lista di scopo di Emma Bonino voleva essere – così almeno l’ho capita – il minimo sindacale necessario a far sedere intorno a uno stesso tavolo persone che al Parlamento europeo approderanno probabilmente negli stessi gruppi, e che comunque finiranno per votare insieme su un gran numero di questioni.

Non basta, a quanto pare: l’uno è totalmente inaffidabile per l’altro; l’altro è inutilmente rancoroso per l’uno. «Io voglio fare politica, non vivere circondato da cavilli regolamentari e da rancori personali», aveva scritto Renzi nell’ottobre scorso, all’indomani della rottura con Calenda, quando l’esperienza del terzo polo era giunta al termine.

In molti avevano creduto che la scadenza del voto europeo avrebbe comunque riavvicinato i due leader, anche solo per ragioni di convenienza elettorale. Invece è come nella favola di Esopo: lo scorpione punge la rana anche se andrà a fondo con lei, non perché gliene venga un vantaggio, ma solo perché è nella sua natura. Evidentemente, in partiti che vivono essenzialmente della parabola politica dei loro leader, e che continuano a nutrirsi non di autentici progetti politici e di una cultura ideologica e intellettuale di sfondo, ma di ragioni prese a prestito dalla cronaca più spicciola, dai sondaggi quotidiani e dalle indignazioni di giornata, la natura non suggerisce altro che di pungere. E così, subito dopo, di affondare.