Nell’eterno dibattito sulla giustizia e, in particolare, sul rapporto tra processo penale, informazione e garanzie dell’indagato/imputato si sono registrate negli ultimi giorni almeno tre novità legate alla decisione parlamentare di recepire nel nostro ordinamento la direttiva UE 2016/343.

La prima è il fatto in sé. La direttiva del 2016 languiva in attesa che le si desse adempimento da alcuni anni, gli ultimi tre dei quali il nostro paese è stato in patente violazione dell’obbligo di darvi esecuzione (fissato dalla direttiva stessa al 2018). Un inadempimento grave, che gli ultimi governi hanno ignorato, a cominciare dai titolari del dicastero della Giustizia, benché esso riguardasse il rispetto di principi fondamentali di civiltà giuridica e imponesse anche la previsione di procedure (rimedi effettivi) nel caso della loro violazione.

La seconda novità riguarda invece il contenuto della previsione, che impone, come ormai a tutti noto, che, «le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole» (art. 4). Si tratta di un obbligo – peraltro conforme all’articolo 27 della nostra Costituzione – che si applica per le dichiarazioni al di fuori, ma anche nel processo.

La terza novità è che la direttiva è rivolta espressamente alle autorità pubbliche e ai magistrati, non riguarda cioè la libertà di stampa o di cronaca, ma i doveri di ufficio dei soggetti pubblici che ruotano intorno all’amministrazione della giustizia. Nel far ciò la direttiva, benché non pare sia stato messo in luce da nessuno, delimita anche il campo di quelle che possono essere le “dichiarazioni pubbliche rilasciate dall’autorità”.

E afferma un principio molto chiaro: tali dichiarazioni sono ammissibili solo se funzionali ad esigenze del processo, non per dare una generica informazione all’opinione pubblica. Perché il diritto all’informazione è assicurato dalla pubblicità, qualora sia prevista, degli atti giudiziari, non da un’attività informativa generale che non è compito delle autorità pubbliche, le quali parlano appunto attraverso quegli atti giudiziari. Che tale sia l’interpretazione corretta della direttiva, lo dimostra, chiaramente la motivazione della stessa (“considerando” n. 18), la quale, ne costituisce, com’è noto, parte integrante anche al fine della corretta interpretazione dei suoi articoli.

E cosa dice tale disposizione? Che la divulgazione di informazioni da parte delle autorità pubbliche su procedimenti penali è ammessa «qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato, o per l’interesse pubblico, come nel caso in cui, per motivi di sicurezza, agli abitanti di una zona interessata da un presunto reato ambientale siano fornite informazioni o la pubblica accusa o un’altra autorità competente fornisca informazioni oggettive sullo stato del procedimento penale al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico». Inoltre il ricorso a tali dichiarazioni dovrebbe essere “ragionevole” e “proporzionato”.

Com’è evidente, l’interesse pubblico che giustifichi le dichiarazioni è un interesse intrinseco al processo (come, in ipotesi, la diffusione di informazioni che consentano di localizzare un latitante) non un presunto interesse generale all’informazione dei sulle ragioni del processo e su chi ne è coinvolto. L’informazione dei cittadini spetta semmai ad altri (giornalisti, studiosi, opinionisti), nell’esercizio del diritto di cronaca e di manifestazione del pensiero, e nei limiti previsti dall’ordinamento. Perché anche il diritto di cronaca (così come il diritto di manifestazione del pensiero) subisce dei limiti per la tutela di valori costituzionali altrettanto fondamentali. È bene dunque che si continui e si alimenti il dibattito su questi temi, perché ci sono ancora molte questioni che devono essere affrontate. A cominciare, ad esempio, dall’abitudine di molti rappresentanti dell’accusa (tra cui i capi degli uffici del pubblico ministero) di indire conferenze stampa o rilasciare interviste “informative” sull’attività svolta nell’ambito dei processi penali.
Tali posizioni, benché sia probabilmente impopolare, non convincono da un punto di vista costituzionale e, a questo punto, anche dell’ordinamento europeo.

Anche perché, se tale facoltà di informare veramente fosse prevista, non si comprende perché essa sia esercitata nella quasi totalità dei casi dai pubblici ministeri (che sono una parte del processo, quindi non completamente “disinteressata”) e non ad esempio dai giudici che adottano gli atti (si pensi alle misure cautelari, quelle che, in genere, producono il clamore mediatico) e che, in ipotesi, sarebbero gli unici titolati a “spiegare” le ragioni di quelle scelte. E tantomeno convince la tesi (su questo punto dissento dalle considerazioni, per altro condivisibili, del Dott. Pignatone su La Stampa di ieri) che questa attività di comunicazione pubblica, oltre che facoltativa sarebbe addirittura doverosa, perché costituirebbe un obbligo corrispondente al diritto di ogni cittadino di essere informato e alla “responsabilità” gravante su chiunque eserciti pubblici poteri.

La nostra Costituzione non prevede una tale responsabilità diretta dei magistrati di fronte ai cittadini e anzi fa di tutto per sottrarre costoro a qualsiasi forma di condizionamento da parte dell’opinione pubblica. Essa prescrive infatti che il giudice è soggetto soltanto alla legge (art. 101) e alla legge deve rispondere. La giustizia è amministrata “in nome” del popolo (art. 101) e non “per conto” del popolo, proprio non c’è da “rendere conto” al popolo, ma solo alla legge. Non solo non c’è, dunque, una responsabilità politica diretta (essendo l’indipendenza assicurata proprio per spoliticizzare l’azione della magistratura) ma non esiste nemmeno una responsabilità politica “diffusa”, generica, qual è quella – secondo alcuni studiosi – imputabile ad altre cariche dello Stato sottoposte al “diritto di critica” dei cittadini, per le proprie azioni.

Le critiche dei cittadini, anche contro i provvedimenti giudiziari, benché legittime, ovviamente, dal punto di vista costituzionale non possono e non debbono avere alcuna influenza nelle decisioni di chi quei provvedimenti assume.
L’unica responsabilità imputabile ai magistrati, accomunati in questo a tutti i funzionari e i dipendenti pubblici (art. 28 Cost.), è quella giuridica, da far valere nelle sedi e con i procedimenti all’uopo previsti (e sicuramente migliorabili). Insomma, rispetto della presunzione di non colpevolezza, limitazione delle dichiarazioni delle pubbliche autorità, rimedi effettivi nel caso di violazione; questo è il significato della Direttiva europea 2016/343, tardivamente, attuata. È bene esserne consapevoli, per non tradirne lo spirito e la lettera, e non tradire così anche la nostra Costituzione.