Discutere con Mario Tronti implica tener ben presente quale è stato il suo ruolo, in anni abbastanza lontani. Egli ha dedicato la sua vita di pensiero alla filosofia del movimento operaio e del suo destino politico. Quando, nel 1966, pubblicò Operai e capitale, non si trattò soltanto di una nuova elaborazione su quel rapporto, fu qualcosa di molto di più. La ragione non è sempre ricordata, ma per me è centrale. Con il lavoro di Tronti Il Capitale di Marx fece la sua irruzione viva e operante per la prima volta nella nostra cultura politica, e nella politica, ripensato nella nuova congiuntura che si apriva. Il marxismo italiano ha vissuto di una eredità nata dal celebre dibattito Labriola-Croce-Gentile, che si svolse all’inizio del secolo scorso. Difficilmente una vicenda intellettuale ha avuto un peso così determinante nella storia politica italiana. Marx è penetrato in Italia attraverso la filosofia idealistica di Croce e di Gentile, stimolata, certo, dal materialismo storico di Antonio Labriola, ma in grado di sviluppare una lettura di Marx filosofo talmente originale da influenzare gli sviluppi del marxismo italiano, nei modi più diversi, fino a Gramsci, e anche l’operaismo di Tronti ha qualche rapporto con quella eredità.

Che l’Italia non abbia avuto mai una socialdemocrazia è dovuto anche all’irruzione del pensiero di Marx attraverso una “filosofia della prassi” di marca, almeno in parte, gentiliana, ignorando, all’inizio, Il Capitale. Lo stesso Gramsci si formò a questa scuola, e così anche “L’Ordine nuovo”. In Germania, per far l’esempio opposto, Marx entrò attraverso il revisionismo socialista dei Bernstein, degli Adler, degli Hilferding, e così aprì la via della socialdemocrazia. Il comunismo di Rosa Luxemburg restò isolato e sconfitto nel 1919. Tornando all’Italia, si potrebbe obbiettare che Benedetto Croce “revisionista” si impegnò sulla teoria marxista del valore-lavoro, ma la interpretò come un «idealtipo», e lo confinò nella celebre tesi del «paragone ellittico» tra due tipi di società, depurato dalle contraddizioni.  Questo preambolo era necessario per tornare sull’importanza di Operai e capitale, che si collocava assai oltre i precedenti tentativi di Raniero Panzieri. Tronti, in quel libro, focalizzò in modo nuovo la tensione conflittuale e di classe tra capitale e lavoro, incorporando anche lui soprattutto La filosofia di Marx di Gentile, e traducendola in una teoria del rovesciamento della prassi, nella nuova luce che proveniva dal Capitale, e da una sua rilettura nei tempi che si aprivano, e qui la novità fu grande. L’operaio diventa operaio-massa, figura che contribuirà, appena qualche anno dopo, a dar forma al ’68 italiano, anche se questo, poi, prese altre strade ed ebbe altri effetti.

Muovendo da queste premesse, ho letto l’intervista di Tronti al Riformista. Ed eccomi a discuterla. C’è un’idea rivelatrice: «Tutto ha avuto inizio con la feroce reazione antinovecentesca che ha voluto, negli anni Ottanta, chiudere in anticipo il secolo grande e terribile». Io resto invece convinto che il secolo «grande e terribile» era giunto al suo approdo definitivo e irripetibile. La ragione, in massima sintesi, è questa: nel Novecento fece irruzione, e diventò il problema del secolo, il rapporto tra masse e potere, proprio in Europa, tra le trincee e tra le macerie della I Guerra mondiale. Il millenarismo si impadronì di questa irruzione, e immaginò di poter realizzare la “metafisica” che vedeva implicita in quel rapporto ultimativo. Il potere tese, perciò, a diventare totale.

Da qui, il 1917 e il 1933, le due terribili vicende del secolo. Nell’una, la massa era «classe», nemico, oltre lo zar, erano il borghese e i contadini ricchi; nell’altra la massa era «popolo-nazione», nemico l’Ebreo, lo sradicato ma considerato “egemone”. Il senso di un destino del mondo permaneva, in forme opposte e inconfrontabili, in ambedue quelle rivoluzioni. Con la sconfitta di esse, nelle assai differenti storie e modalità che sappiamo, è il millenarismo, grande e terribile, che concluse la sua corsa nella catastrofe, per il deperimento della sua energia costituente e per le diverse forme di oppressivo potere totale che realizzò. La “metafisica” del nazional-socialismo produsse il più grande crimine della storia dell’umanità: la metafisica può diventare criminale nelle sue visioni apocalittiche.

Oggi arriva altro, non però il ritorno dell’Ottocento, come se quel grande e terribile secolo fosse stato un’intrusione chiusa in se stessa. Nel frattempo si è dissolto il mito del popolo, della democrazia di massa plebiscitaria, e, per quel che interessa noi, dopo il tempo lungo della mediazione costituzionale oggi in grave difficoltà, si è esaurita la storia della «classe», e con essa la storia del movimento operaio. Oggi il lavoro non forma più «classe», ma tante soggettività disperse, e non c’è nessuna «autonomia del politico» che sia in grado di richiamarla all’esistenza. È finito, insomma, «americanismo e fordismo», e così anche il suo antagonista, secondo una elementare legge della dialettica. Non sono finiti capitale e lavoro, hanno cambiato forma e rapporto reciproco. È a questo punto che l’operaismo entra in crisi, perché non esiste più, politicamente, la storia della classe che gli aveva dato vita, stimolando politica e pensiero. La cosa non sembra dovuta a “errori” di visione, a ritardi di analisi, come sembra pensare Tronti, ma alle nuove potenze tecnologico-cosmopolite entrate in campo, vincenti.
Per tornare a lui, il suo itinerario lo ha condotto, non certo per caso, verso l’idea di «autonomia del politico», cosa estremamente significativa del mutamento di scenario.

L’autonomia del politico è un’idea che ha, mi pare, pienamente assorbito la fine del rapporto fra classe e politica. Dunque, non c’è da rimestare nel secolo grande e terribile; nel 1917 abbiamo assistito al tentativo, attraverso la lotta di classe, di una piena storicizzazione della vita delle masse con effetti straordinari nella politica e nel pensiero; oggi tutto questo mondo si è dissolto, con il suo apparato intellettuale. La vita non si storicizza più, secondo un destino che si pensava ad essa immanente, ma resta nascosta, o visibile, nei suoi anfratti o percorsi globali, dappertutto: o come vita astratta e senza storia del capitale finanziario che crea enorme speculazione ed enorme ricchezza, o come miseria e disperazione di popoli e migranti, o come precarietà senza regole, o come tanto lavoro mediato dalla potenza della tecnica. Non più «lavoro vivo», da cui il capitale estraeva direttamente plusvalore, ma tutt’altro: cosa da elaborare, che però non comprende più la solida base di un movimento di classe.

La storia va di palo in frasca, per citare Musil. Il capitalismo, non più «industriale», come scrive bene Tronti, vive oltre e, insieme, in contrasto con le forme aspre e insieme interdipendenti della geopolitica che ha preso nelle sue mani la storia del mondo globale. Un tempo era l’Occidente il centro di tutto, anche perciò dominava la rivoluzione passiva di «americanismo e fordismo», come la definiva Gramsci. Quello scenario si è chiuso. L’Occidente, diviso come non mai, non ha più un’idea di sé, e con la fine di questa idea diventa un mondo ancora assai ricco ma diseguale, senza pensiero, e con una crisi evidente delle sue democrazie rappresentative, mantenendo solo il ricordo di una centralità che si va esaurendo. È soprattutto attraversato da una radicale scissione tra potere e sapere, per riferirmi alla linea Hegel-Marx, che è il vero segno del suo declino. Non si comprende quale «filosofia della prassi» sia possibile nel carattere informale della globalizzazione, quando la vita si sottrae alla storicità.

Tutto quello che ho descritto non è una vicenda sociologica, ma un intenso pezzo di storia politico-filosofica che, al suo culmine, nel 1917, era destinato a realizzare la storicizzazione della vita. Oggi radicale è la scissione tra vita e storia, e ci vorrebbe un pensiero che si ponesse come obbiettivo la salvezza, la conservazione e lo sviluppo della vita del mondo, fuori da ogni millenarismo apocalittico. Il compito è enorme, ma nuovo. Nuovo rispetto al secolo che è alle spalle, e perciò non implica affatto un ritorno all’Ottocento, come dice Tronti; è il compito immenso di un mondo indecifrabile, che non se lo è posto affatto nella sua complessità.

È possibile che le contraddizioni tra vita e storia giungano a un tale punto di insostenibilità, da contribuire a formare la cultura e la politica necessarie per quel compito. Ma non è detto che ciò avvenga, ed è possibile che il mondo globale approfondisca gli abissi delle sue contraddizioni senza sapersi pensare o governare. Inutile far previsioni. Credo che noi siamo gli ultimi testimoni di un mondo concluso; forse non possediamo tutti gli strumenti per comprendere quello nuovo, che naviga informe e a suo modo terribile sotto i nostri occhi.