“Socialismo, la palla al piede che affonda libertà e uguaglianza”. Però! I titoli che i giornali decidono di dare a un articolo giocano sempre sporco… È la stampa bellezza! Ma penso che solo una testata ostinatamente garantista come Il Riformista possa permettersi questo “strillo” senza per questo gettarsi nel mazzo delle destre oggi in lizza. Provo dunque a dire qualcosa sull’intervento di Biagio de Giovanni al quale questo giornale (il 14 maggio) ha dato un titolo così tanto urtante eppure con qualche anzi non poca complicità del suo stesso autore. Ci provo, senza tuttavia avere intenzione di inserirmi nella discussione da cui l’articolo ha preso le mosse, in quanto non mi ritengo adatto a farlo per ruolo e professione. Sono incline a occuparmi dei margini tra un medium e l’altro (la chiamiamo mediologia) piuttosto che direttamente dei pilastri della società civile, quindi cerco solo di aggiungere qualche considerazione sulla logica, sulla mentalità, che mi sembra emergere nell’articolo. Non posso nascondere il fatto che, a intervenire, mi spinge un doppio sentimento.

Da un lato la personale simpatia per una figura che nei miei anni di insegnamento a Napoli ho avuto modo di apprezzare per lo straordinario ruolo di maestro da lui svolto nell’ambiente culturale e politico della città, in elegante particolare distinzione tra il suo mandato di intellettuale e la macchina dei partiti. Dall’altro lato, tuttavia, un certo rimpianto che sulla mia strada di allora – anni Settanta e Ottanta – non si siano mai realizzati incontri e scambi di reciproco autentico interesse con le figure di maggiore peso nella sinistra napoletana. Ma con altri a Roma è andata assai peggio. Dunque, se non erro, De Giovanni dice in sostanza quanto sia o possa rivelarsi inutile e persino controproducente insistere a pensare la politica dentro quelle coordinate storiche occidentali in cui i principi di uguaglianza – presi a carico da soggettività socio-culturali pur diverse per radici, teorie e prassi come socialismo e socialdemocrazia – hanno vissuto e subito una progressiva disfatta. Tanto più dolorosa e traumatica quanto più, almeno per alcuni tratti, si è arrivati a credere che tali principi, se non pienamente raggiunti, fossero almeno pervenuti a una fase di progressiva realizzazione.

Per rapidi cenni, in quanto teso ad arrivare alla chiave di volta del suo discorso, De Giovanni ci rimanda alle tappe di questa sconfitta epocale, direi nei termini di una vittoria mancata. Mancata in quanto prospettiva che sarebbe stata invece altrimenti possibile proprio nelle fasi storiche e sociali in cui si è consumata? In effetti non mi pare che egli scavi nella ferita sino a dirci o meno se davvero in ultima istanza l’impresa fosse già allora possibile. Se giusti fossero gli strumenti e ingiusti gli operatori o viceversa. La qual cosa significherebbe penetrare nel senso di quella realizzazione, sostanzialmente interrotta o deviata ad onta del suo generoso impegno umano e ideale. Significherebbe entrare nel suo rimosso: proprio ciò che si annida dentro l’obiettivo stesso dell’uguaglianza sociale.

La traccia più interessante che il suo testo ci offre è, a mio parere, la sintesi già di per sé propositiva, illuminata, con cui dichiara quanto il corpo dei valori umani (l’espressione è mia) stia oggi vivendo al bivio estremo – vanishing point – tra la rinnovata eppure mai sopita esasperazione dei propri bisogni e l’urgenza estrema di trovare una via che non sia la seconda o terza o ennesima e ancor più promiscua via in cui, con impeto per giunta decrescente, è stato sempre di nuovo illuso. De Giovanni non precisa il senso che attribuisce all’aggettivo “umano”, ma in qualche modo – sospendendo il problema di quanto vi possa essere di “umanistico” nel suo modo di intendere la “qualità” di un aggettivo di così grande ambiguità e ambivalenza ovvero complicità con il proprio esatto suo contrario – lo si può ricavare dalla sua stessa tesi. Dal fatto di sostenere apertamente che la natura umana oggi può contare, nel bene e nel male, esclusivamente su “un capitalismo di Stato dispotico”. In eredità e continuità, dunque, con le “mille tragedie” prodotte dagli stretti vincoli economico-politici imposti alla società lungo l’intera storia dell’Occidente a partire dalla polis greca, e cioè da quella prima scintilla di civilizzazione che ha dato nome alle virtù sovrane della politica.

Dell’utile per l’utile che si fa sempre di nuovo sistema necessario di assoggettamento a sé di ogni altra necessità di vita. È questo suo richiamo alla “natura umana” come alterità e resistenza rispetto alla sua obbligata condizione sociale, che trovo interessante in quanto mette in campo l’impatto senza sostanziali mediazioni, doloroso, carnalmente sofferente, tra essere umano e potere. Tra il suo corpo e il corpo del Potere che lo include e in cui inevitabilmente esso si include. Richiamo, questo di De Giovanni, di notevole tempismo, cioè in perfetta sintonia con una vita quotidiana in cui ogni singola persona è stata gettata dalla pandemia in corso dentro lo scontro faccia faccia tra se stessa e la società da cui è costretta – da sé medesima, dal proprio bisogno – a attendersi una cura: intelligenza e capacità operative di cura. Di salva-guardia (parola quantomai esemplare).

Ogni richiamo – inevitabilmente libresco, sapienziale – alla funzione di controllo e sorveglianza di dispositivi tecnologici straordinariamente avanzati rispetto al panopticon, come pure ogni rilancio delle teorie elaborate da Foucault sulla violenza illiberale dello Stato, non sono bastati, nonostante l’eccellenza teorica, illuminante, dei loro fautori, a compensare e sedare la paura pura e semplice di morire, insorta e cresciuta – a torto o a ragione, strumentalmente o meno – nei singoli individui. Ed anzi hanno rischiato di apparire allarmi più irresponsabili dell’irresponsabilità congenita delle leggi sociali, della loro ingiustizia e strutturale cecità umana. Ma veniamo al dunque: l’eguaglianza come progetto mai davvero realizzato: saltuario e provvisorio o superficiale, sempre revocabile in quanto sempre nelle mani di chi è in grado di concedere o meno pari diritti non ad ogni persona ma ad una nei confronti dell’altra o per mezzo dell’altra. Sulla scorta di Aldo Schiavone – che sul tema ha scritto un ponderoso volume – De Giovanni tocca il punto cruciale: in un mondo profondamente trasformato a causa di mutazioni, che a me pare vengano da lui individuate più che altro a seguito del fallimento del quadro politico da esse stesse progressivamente reso impotente e obsoleto, bisogna ripartire trovando e dando strumenti e teorie in grado di rispondere e corrispondere ai valori di eguaglianza rivendicati dalla persona umana. «Il richiamo al socialismo non basta – scrive – sono le nuove urgenze globali che potrebbero far nascere le forze, i soggetti, le idee, i compromessi, le nuove alleanze». E conclude in termini di prospettiva a venire: «Un immenso lavoro anche ideale da svolgere».

Che si tratti di svolgere un immenso lavoro non dubito. Ma dubito assai più che i tempi della politica, qui e ora, consentano questo ripensamento a meno di non immaginarselo come una qualche Fondazione alla Isaac Asimov, messa a lavoro mentre intanto il mondo continua a andare per la sua storia. Se si ritiene necessaria una pausa di riflessione dentro il tempo che precipita per conto proprio, la pausa da prendersi andrebbe allora costruita con strumenti fuori del tempo, come appunto s’addice a momenti di autentica rifondazione. Dunque il nodo problematico rivendicato in questo articolo è sacrosanto ma, almeno per come viene enunciato dal suo autore, mi suona troppo da vizio congenito di pensatori delle sinistre storiche, organici o disorganici che siano. Di menti proiettate sulla propria funzione di guida ideale piuttosto che sull’urgenza del “che fare”.

Anche se per altro verso è giusto porsi la domanda – e De Giovanni in questo ci aiuta – se non sia stata proprio l’urgenza delle ideologie novecentesche ad avere bloccato il tempo moderno dentro il proprio insormontabile tragico orizzonte. Mi spiego meglio: De Giovanni scrive, volente o nolente, in nome e per nome di un “noi” in cui hanno avuto corpo tutte le azioni del fronte ideologico-politico di cui oggi sa assai bene, avendovi preso parte, come misurare la crisi e l’obsolescenza. Sa quindi benissimo che c’è una cultura politica del tutto attuale (quando addirittura inattuale) che ancora detiene, anzi si tiene ben stretti, ruoli e funzioni nel quadro dei partiti, delle organizzazioni e dei dispositivi di potere del sistema “democratico italiano”. E allora, io credo che le sue capacità critiche – e sono grandi – non dovrebbe spenderle guardando al futuro quanto piuttosto tornando al passato. Al prima, cioè assai prima, delle promesse aperte da processi, metamorfosi e mutazioni, in verità innestate assai poco per merito delle culture di sinistra, che anzi si son trovate a tentare di inseguirle con crescente affanno. È il passato ad essere ancora grottescamente operante nelle teste per le quali De Giovanni si immagina possa avvenire una permutazione di valori così clamorosa come quella che ci propone. La sua, per quanto nobile e intelligente – o forse proprio per questo – è una svista che può portarlo a due pericolosi risultati.

Il primo è quello di lasciarsi scavalcare dalla miseria della politica attuale in cui, paradossalmente, finiscono per stare più “sul pezzo” – per fare più gioco politico, mercato di consensi, amministrazione ordinaria – quanti continuano, cinicamente o meno, a puntare sui vecchi stereotipi delle ideologie umaniste e libertarie nel tentativo di contrastare quanti invece ricorrono ai vecchi stereotipi delle ideologie liberiste o neo-sovraniste. Gli uni e gli altri, più o meno sbandierando tuttavia l’idea neo-moderna, neo-modernizzatrice o meno, che il mondo è profondamente mutato (senza poi avere capito davvero come e perché, in quali profondità: un mistero simile al covid 19). E che il campo dei conflitti gode ora di nuove clamorose tecnologie (purtroppo ancora percepite come cultura e politica hanno sempre voluto intendere la tecnica in rapporto alla natura umana: massa di manovra oppure capro espiatorio).

Il secondo risultato, più grave (ma di questo giudizio non voglio essere sicuro, data l’accortezza intellettuale di De Giovanni), è quello di aprire nuovi giochi e nuovi orizzonti senza che ancora la nostra cultura di appartenenza, nostra in termini di movimento e movimento di opinione, abbia potuto (voluto?) approntare una analisi, mirata, dei conflitti di interesse tra persona e società dentro i conflitti di interesse di cui si alimenta il progetto, appunto il dispotismo economico-politico (la politica come ancella della finanza), definitivamente subentrato al tramonto del capitalismo democratico. Esso – come apparato materiale e simbolico, come nuovo Leviatano di un mondo sempre più disincantato, abbandonato da dei e re – è stato in gran parte inventore o comunque operatore e incubatore dell’idea di uguaglianza. Idea dunque che, nella sua mostruosità, non poteva nascere più pregiudicata a giudizio di quanti la hanno immaginata o teorizzata o desiderata o propagandata come integra da ogni compromesso.