Quando si discute della parola “socialismo”, per valutarne l’attualità, la prima domanda da porsi si può formulare così: se socialista sia qualunque politica di redistribuzione del reddito in ambiente democratico, qualunque riuscito equilibrio tra liberalismo e democrazia sociale, qualunque lotta alle diseguaglianze, tutte cose che di sicuro mostrano una più o meno vigorosa volontà di giustizia in una società; oppure se sia una parola carica di una storia specifica, nata da una cultura assai elaborata, sia pur nelle sue profonde differenze interne; e che soprattutto sia nata in relazione a una società composta in un modo storicamente determinato, e che, proprio per questo, poteva rispondere alla domanda di eguaglianza utilizzando quella cultura che essa stessa aveva prodotto, quelle forme politiche da essa sgorgate.

Nessuno nega il decisivo contributo di tutta la socialdemocrazia europea, nelle sue varie forme, alla costruzione dello Stato sociale nel dopoguerra europeo – il socialismo in forma europea, si può dire – dando una lettura social-liberale della congiuntura. Lì è consegnata la storia stessa della sinistra che si è chiamata socialdemocratica, la quale in Germania, quasi un paradosso, ha dato sostegno a quell’ordo-liberalismo che non è liberismo, tanto meno “selvaggio”, ma proprio l’opposto, cultura dello Stato sociale di mercato. Si deve anche riconoscere che nelle sue varie forme il social-liberalismo si è sviluppato con il contributo di forze diverse da paese a paese: cristiano-sociali, democratici-cristiani, liberali e radicali. Nel frattempo, il socialismo prendeva la fisionomia che conosciamo nella sua versione comunista – che non possiamo trascurare come se fosse stato un piccolo incidente della storia – in Urss, in Asia, e nei paesi dell’Est-Europa che si sono per tanto tempo dichiarati paesi del socialismo reale.

Un mondo politico, quello ricordato, che, nella sua componente di sinistra, socialista e comunista, non esiste più se non in modo flebile, ridotto e in profonda crisi di identità. Questo non pare dubbio, anche Emanuele Macaluso lo riconosce: è lecito chiedersi perché? A me pare che il socialismo, per esser valutato allo stato delle cose oggi, vada indagato nella sua determinatezza storico-culturale, e nello straordinario ruolo che proprio questa determinatezza gli ha consegnato.  Storia contrastata ma innegabilmente grande, non è qui il dissenso con le tesi di Emanuele Macaluso e Massimo Salvadori. Il suo fondamento è stato nell’idea del lavoro come motore inesauribile di legame sociale, di solidarietà di classe, di vincolo comunitario, motore che si sviluppava entro la forma-Stato. È in questa struttura, e tra le idee che da essa provengono, che esso si è formato nei grandi conflitti dello scorso secolo.

Questa trama originaria non c’è più, disgregata irreversibilmente dalla fine del rapporto tra eguaglianza e lavoro, e della lotta di classe democraticamente intesa che ne discendeva, e dalla fine del lavoro stesso come fattore determinante di aggregazione sociale e di riscatto collettivo, che era la base del grande compromesso. Movimento operaio, struttura di classe, lavoro socializzato, democrazia sociale: sono le parole-chiave che indicano l’origine del socialismo “democratico” (non era l’unico) e hanno permesso che diventasse una grande forza aggregata, qualunque forma esso abbia preso: ciò che lo ha indicato, in certe fasi, perfino come un destino necessario della storia. Questo filo si è smarrito nella fine del lavoro socializzato e intensamente politicizzato, anche perchè si va slabbrando il confine dello Stato-nazione dei partiti, entro il quale avvenivano le politiche socialdemocratiche di redistribuzione, ed è troppo semplice dire: trasferiamole più in alto. Gli scenari si svolgevano, con tante differenze, nel fronte di lotta e di compromesso di classe tra grandi entità aggregate e in opposizione tra loro, in uno scontro per l’egemonia di lungo periodo. Uno scenario che si rifletteva nel ruolo decisivo dei partiti di massa.

Tutto questo mondo culturale e politico, nella sua determinatezza storica di sinistra e socialista, sta sparendo dalla scena. E certo a questo destino ha contribuito non poco il 1989, con la catastrofe economica, sociale e umana di un mondo che al socialismo si era ispirato, in quel legame quanto mai problematico e di lotta, ma ineludibile, fra comunismo e socialismo. Il suo erede ufficiale, rimasto in campo, è un capitalismo di Stato dispotico, certo utile per il suo popolo, ma senza argini né diritti. Può significare, questo, che l’immenso patrimonio sull’idea di eguaglianza si sia disperso, e non ci sia più come una domanda centrale nel mondo umano della storia? Una idea che è nata, pur problematicamente, nella cultura greca, e ha continuato ad agire, tra mille tragedie, in tutta la storia dell’Occidente? Se fosse così, sarebbe una catastrofe senza precedenti; ma sarebbe ugualmente destinata a sconfitta, producendo una strada senza uscita, volerla inchiodare alla parola “socialismo”, “socialdemocrazia” e alle politiche che ne derivavano, le quali hanno avuto un inizio e anche una fine nel mondo nuovo e terribile che si apre.

Se fuori dalle socialdemocrazie non c’è spazio per l’eguaglianza, come scrive Massimo Salvadori, allora, nella prospettiva lunga, questa parola ha poche speranze di sopravvivere. Non dice niente a uno storico della sua qualità e a un politico dell’esperienza di Emanuele Macaluso, il declino, e in certi casi la sparizione, della socialdemocrazia come forza politica specifica nell’Europa degli Stati, che la ha prodotta? Solo un limite soggettivo delle classi dirigenti, o qualcosa di più? Non c’è, forse, un accanimento terapeutico di natura cultural-lessicale nella insistenza sulla parola fatale? C’è ancora un movimento operaio come forza politica?

Non è questione di “nuovismo”, come pensa il carissimo Emanuele Macaluso, ma della necessità, sì, di idee nuove in un mondo che irriversibilmente cambia. Non c’è niente di male nella espressione “idee nuove”, sotto l’urto concretissimo della storia. Cambia il mondo, diventato globale, con la spinta di una rivoluzione tecnologico-scientifica-capitalistica senza precedenti che sta dando una nuova forma al tutto, al lavoro anzitutto, al mondo stesso, alle forme delle società e ai dilemmi sulle democrazie. E che contribuisce a mutare proprio tutto sul terreno dell’idea di eguaglianza, introducendo potenzialità nuove e, insieme, l’ipotesi di una vittoria planetaria dell’ineguaglianza e di democrazie dispotiche. Proprio l’irrompere della diseguaglianza nel mondo globale e interdipendente pone compiti rinnovati nel profondo per rispondere alla sua versione ambigua e quanto mai potente.

Qui non si tratta certo di costruire un percorso, ma di indicare una via lungo la quale siano possibili nuove elaborazioni, finita l’epoca in cui il plusvalore veniva estratto direttamente, e senza la grande mediazione della tecnologia e della scienza, dal “lavoro vivo”, così socializzandolo nella grande fabbrica, un vero aggregato umano, e politicizzandolo come classe capace di alleanze, con tutto quel che ne è seguito. L’obiettivo diventa assai coinvolgente nel suo profondo idealismo-realismo, e la lotta, si può dire, perfino più aspra.

Esso sta nell’elaborare, nell’andare incontro a una “globalizzazione dell’umano” mai così urgente e piena di realismo, e mai così difficile, perfino la pandemia insegna, con urgenza, più di qualcosa. Ecco una citazione tratta dal gran bel libro di Aldo Schiavone, icasticamente intitolato Eguaglianza, da cui ho tratto molti spunti, che ricostruisce, dall’antica Grecia, la storia straordinaria di questa parola. «La dissoluzione della struttura di classe delle vecchie società capitalistiche può mettere in moto ricomposizioni solidali dell’umano prima inconcepibili, costituendo contiguità e simmetrie dove esisteva soltanto misconoscimento, e può far emergere elementi espansivi di oggettiva, impersonale eguaglianza, rispetto a ogni tipo di differenza, individuale o di genere. Può creare occasioni continue di comunione solidale rispetto a un patrimonio genetico, ambientale, culturale la cui unitarietà sostanziale è esaltata dal dominio di strumenti conoscitivi e operativi che lo padroneggiano e lo trasformano sempre più a fondo».

Non si è con la testa tra le nuvole. Non si ignora la nuova durezza della geo-politica e dei suoi risvolti, che occludono rapporti nel mondo globale. Non si sottovaluta la potenza di una globalizzazione esasperata e caotica. Tutto può accadere, in uno stato di cose che non ha precedenti, anche un insediamento planetario dell’ineguaglianza. Proprio per questo la riedizione dei vecchi strumenti non basta più. Si immagina, per dare un linguaggio più politico agli spunti indicati, che senza un rapporto tra nuovo cosmopolitismo e territorialità, senza una spinta, almeno, a far crescere la lotta sovranazionale per l’unità dell’umano, abissi possibili si aprono nella storia dell’uomo.

È l’Occidente stesso in gioco, e anzitutto l’Europa, ma il richiamo al socialismo non basta a rianimarne il ruolo né a mobilitare popoli come una volta. È necessaria una cultura all’altezza di questo problema. Sono le nuove urgenze globali che potrebbero far nascere le forze, i soggetti, le idee, i compromessi, le nuove alleanze. Tutto da vedere, un immenso lavoro anche ideale da svolgere. Non perché l’antica esigenza di eguaglianza e libertà sia sotterrata, ma perché, senza che essa si rivesta di altre forme e culture, è già sulla via di soccombere alla potenza dei molti nemici.