«La verità è che il Consiglio superiore della magistratura fa quello che vuole e procede a fare le nomine non in base ai criteri fissati nelle circolari dallo stesso Csm, ma in relazione alle richieste che gli provengono dalle correnti». A dirlo non è l’ex zar delle nomine Luca Palamara, ora scrittore di successo, ma il professor Franco Gaetano Scoca, difensore del giudice Angelo Spirito nella sua battaglia per il rispetto delle regole davanti al Consiglio di Stato.

Ricapitolando per chi si fosse distratto: il Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno delle toghe presieduto dal capo dello Stato, sceglie fra due candidati a un incarico quello che ha meno titoli. Il candidato bocciato presenta allora ricorso al giudice amministrativo che, evidenziando la sperequazione posta in essere dal Csm nella comparazione dei due profili, lo accoglie. Il Csm, a questo punto, invece di prendere atto della decisione del giudice amministrativo, nomina nuovamente il candidato che aveva meno titoli. Con una differenza importante. Dal momento che non gli si può modificare il curriculum, la proposta di delibera viene infarcita oltre misura di aggettivi e sostantivi che possano renderlo mirabolante e degno di un novello Ulpiano o Gaio.

Nelle circa cinquanta pagine di delibera con cui la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm, ringraziata ieri da Mattarella per il lavoro svolto, ha rinominato Pietro Curzio primo presidente della Corte di Cassazione, l’aggettivo “eccellente” compare una ventina di volte, seguito subito dopo da “straordinario”. E non si contano i sostantivi “dote”, “capacità” “organizzazione”, utilizzati a mani basse per esaltare la figura professionale di Curzio rispetto a Spirito. Con questo “espediente” linguistico il Csm ha messo la classica pezza alla stroncatura da parte del Consiglio di Stato. I giudici amministrativi, infatti, avevano ritenuto «palese la (consistente) maggior esperienza del dott. Spirito» sul parametro «dell’adeguato periodo di permanenza nelle funzioni di legittimità», in quanto al momento della nomina il ricorrente lavorava in Cassazione «da quasi venticinque anni», «dal 2016 anche con funzioni direttive», mentre Curzio solo «da circa tredici anni». Lo stesso vale per il parametro della «partecipazione alle Sezioni Unite», in quanto Spirito ne ha fatto parte «dal 2008 al 2016 (periodo nel corso del quale ha steso ben 172 sentenze, dalle quali risultano estratte 103 massime) e quindi dal 2018 quale Presidente titolare», mentre Curzio è componente soltanto dal 2014.

Non potendo eliminare i numeri il Csm ha, come ricordato da un suo componente, «ripercorso gli aspetti motivazionali che il giudice amministrativo ha chiesto di emendare». Contro il maquillage linguistico hanno votato i pm antimafia Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, oltre a Stefano Cavanna, laico in quota Lega. Astenuti i tre togati di Unicost, la corrente di Spirito. Favorevoli tutti gli altri. Con l’avvallo del capo dello Stato che stamattina presenzierà alla solenne inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, ascoltando attentamente la relazione di Curzio. A Spirito, incassata la seconda bocciatura in stecca, rimane solo la possibilità di presentare un nuovo ricorso, prima al Tar e poi al Consiglio di Stato. Ma pure se fosse, il Csm ha già vinto. A tavolino. Conoscendo le tempistiche dei ricorsi amministrativi, anche se il ricorso dovesse essere nuovamente accolto, sarebbe comunque troppo tardi. Spirito, per la gioia del Csm, l’anno prossimo compirà 70 anni e dovrà andare in pensione per raggiunti limiti di età.

«Conoscendo il modo di operare del Csm faranno di tutto perché a seguito della decisione del Consiglio di Stato non succeda niente», aveva detto Scoca la scorsa settimana, all’indomani della sentenza che dava ragione al suo assistito.
Una scommessa che Scoca ha vinto senza neppure sforzarsi troppo. «Il monarca assoluto, legibus solutus, schiaffeggia ed irride il Consiglio di Stato. E a Berlino, purtroppo, non resta più alcun giudice che possa contrastare utilmente tanta arroganza», il laconico commento del giudice veronese Andrea Mirenda, magistrato vicino ad “Articolo 101”, il gruppo di toghe che si batte da anni, senza successo, contro lo strapotere delle correnti.