"Una rete di spionaggio iraniano è attiva in Italia da sempre"
Caso Sala, Mancini: “Troppi errori, gli Usa iniziano a diffidare dei nostri 007. Abedini è una spia, arresto gestito male”
Per l’ex dirigente del controspionaggio italiano, più volte a capo di missioni top secret, il silenzio stampa andava chiesto sull’arresto di Abedini, “chiaramente un agente segreto pasdaràn. E non è certo il solo”
Marco Mancini, ex vice direttore Aise e direttore amministrativo del Dis, trent’anni nei servizi segreti di cui una buona parte trascorsa in missioni top secret all’estero, segue con apprensione la vicenda del sequesto di Stato di Cecilia Sala in Iran.
«Sin dal primo momento ho fatto notare che qualcosa non torna. Qualcuno ha sottovalutato il caso sin dall’inizio, trattando l’arresto di Abedini, un’operazione internazionale straordinaria, come fosse ordinaria amministrazione. E ignorando una sequenza di conseguenze serie».
La famiglia di Cecilia Sala ha chiesto il silenzio stampa.
«Da padre, capisco. Ma il silenzio stampa andava fatto quando è stato fatto l’arresto. Dovevano essere le istituzioni a dire che per l’arresto di un sospetto terrorista, era più prudente, per mettere in sicurezza Cecilia Sala, non parlarne. Il sipario doveva calare sulla notizia di Abedini. Il fatto che non sia accaduto – perché quando si arresta una spia ci sono sempre ripercussioni, – significa che si era sottovalutata la portata del pericolo».
Cecilia per la verità non ha detto: “Parlate poco”. Ha detto: “Fate presto”.
«Si sarebbe fatto prima se non si fossero divulgate le notizie sull’arresto di Abedini. Si è parlato di un presunto terrorista senza accertare se esistesse una rete di procurement iraniano in Europa. E si è preferito arrestarlo su due piedi, lasciando così via libera agli eventuali complici collegati a lui con un’antenna Gps, che hanno potuto squagliarsela indisturbati».
Abedini ha parlato tramite i suoi avvocati, dice di essere un accademico e si stupisce del suo arresto…
«Se fosse stato un accademico o un imprenditore la struttura dei pasdaràn non sarebbe così mobilitata. È l’atteggiamento iraniano a smentirlo. Nessuno sa cosa stia facendo l’intelligence e che cosa stanno facendo le istituzioni, che sicuramente staranno lavorando. In casi come questo è giusto parlare poco, e che siano i risultati a parlare».
Certo poi, a liberazione di Cecilia Sala avvenuta, dovremo riconsiderare i nostri rapporti con l’Iran.
«Io li considero con le parole di Paolo Mieli: l’Iran sta dietro ad Hamas, Hezbollah e agli Huthi. È il mandante del 7 ottobre: uno Stato che vuole la cancellazione, l’annientamento di Israele. Con questi oggi dobbiamo trattare, ma sapendo che il regime di Teheran finanzia il terrorismo, e per quanto sia debole – grazie alle azioni partite da Israele – tenta di assestare gli ultimi colpi di coda pericolosi, disperati».
L’Iran ha una rete di informatori mappata in Italia?
«Io questo non lo so, ma so che anche in Italia l’Iran ha colpito dei dissidenti tra cui Mohammad Hossein Naqdi, un diplomatico passato con l’opposizione ucciso il 16 marzo 1993 a Roma, da due killer su una Vespa. Colpiscono in tutto il mondo: si pensi a Salman Rushdie, che dopo aver pubblicato i Versetti Satanici è stato condannato a morte dall’Iran e ha subito diversi attentati in paesi e continenti diversi».
La rete di intelligence iraniana ha qualche personaggio centrale in Italia, a Roma?
«In tutte le capitali europee c’è una presenza importante. A Roma poi come tutti sanno c’è anche il Vaticano, e c’è anche una ambasciata iraniana presso la Santa Sede».
Anche intorno alla Santa Sede ci può essere una importanza strategica, sia per captare notizie che per svolgere una funzione di diplomazia segreta.
«Questo potrebbe essere un punto da esplorare, da tenere in considerazione. Generalmente l’Iran manda in Vaticano persone molto vicine alla guida spirituale».
Parla di Khamenei?
«Certo. E visto che i pasdaràn dipendono da Khamenei, ritengo che quello della sede diplomatica iraniana presso la Santa Sede potrebbe essere un percorso da esplorare, vista la contiguità con il potere centrale di Teheran».
E a proposito di Teheran, lì noi…
«Quando si parla di controspionaggio offensivo si tratta di realizzare, costituire delle strutture nei paesi di interesse per avere degli interlocutori diretti che ci aiutano a salvaguardare le vite dei nostri connazionali».
È mancato?
«Non lo so se è mancato, sicuramente se ci fosse stato, Cecilia Sala sarebbe stata preventivamente messa al sicuro. Magari nella riservatezza, nel segreto certi interlocutori si sarebbero potuti attivare. Cecilia poteva essere portata in una casa sicura, nella nostra ambasciata o fuori dal paese, con un volo privato o attraverso altri mezzi di trasporto».
Mancini, parla per esperienza vissuta?
«Certamente. Va preparato prima il terreno, io di esfiltrazioni ne ho fatte e in questo caso si poteva e si doveva fare benissimo, agendo preventivamente e tempestivamente».
Una mia fonte mi ha scritto “Altri casi simili a quello di Abedini e Sala sono stati risolti”, in passato. Le risulta?
«È vero, ci sono stati altri casi nel recente passato e sono stati risolti. Risolvere un problema significa anche non crearlo, intervenendo per tempo».
Anche prevenendo minacce iraniane in Italia?
«Esattamente. Il presidente Khatami venne ai funerali di Papa Giovanni Paolo II, nel 2005. C’era Silvio Berlusconi, come presidente del Consiglio. Anche in quella circostanza i nostri servizi hanno lavorato molto bene. E con una attività preventiva abbiamo collaborato affinché quell’incontro avesse luogo con la sicurezza necessaria».
Sembra che gli Usa, nella richiesta diretta alla Procura di arrestare Abedini, abbiamo bypassato la nostra intelligence…
«Il motivo grazie al quale si capiscono tante cose nell’ambito dell’intelligence oggi sta nel saper guardare al recente passato».
Ovvero?
«Al fatto che Artem Uss, altro procurement arrivato alla Malpensa, citato nei documenti dell’autorità giudiziaria americana, è scappato. Anche lì i servizi non hanno brillato. E ricordo anche che in Italia era stato reclutato un ufficiale della Marina militare, che lavorava per i russi. Agli occhi degli americani forse abbiamo perso un po’ di smalto».
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