I suoi inviti al dialogo sono caduti nel vuoto, ma Stefano Ceccanti continua ad appellarsi alla politica: sul premierato occorre rimuovere i paletti ideologici e lavorare a una riforma condivisa. La soluzione proposta dal costituzionalista è chiara: ripartire dal testo Salvi della Bicamerale D’Alema. Ma a oggi lo scenario sembra utopico: il professore critica la maggioranza perché non riconosce che il testo «non è difendibile» e, allo stesso tempo, rimprovera all’opposizione di aver perso di vista il «movimento referendario» e di non offrire un’alternativa concreta.

Professore, andiamo dritti al punto. Oltre 180 suoi colleghi hanno firmato un appello contro il premierato: siamo davvero di fronte a un pericolo di deriva autoritaria?
«Siamo di fronte a un progetto confuso e a un rischio di lacerazione. Dobbiamo dare per scontata a tutti i costi la lacerazione o lavorare – per quanto possibile – a superarla, puntando a una riforma a due terzi? Sarebbe politicamente possibile perché la società non è lacerata come ai tempi della Guerra Fredda, e tecnicamente possibile se si ripartisse dal testo Salvi della Bicamerale D’Alema».

Lei più volte ha sostenuto la necessità di un impianto condiviso tra maggioranza e opposizione. Crede che ci siano ancora margini o il muro contro muro è ormai inevitabile?
«Il punto non è che cosa io preveda. Chi non ha dirette responsabilità politiche e fa lavoro intellettuale non è chiamato solo a prevedere, a commentare passivamente la politica, a cadere in una sorta di iper realismo rinunciatario. Cosa ci chiede la Costituzione sulla sua revisione? Che ci siano maggioranze ampie oltre i confini della maggioranza di governo, perché le regole del gioco devono essere condivise. È possibile che le regole vigenti per Comuni e Regioni siano stato condivise, e così pure la Legge Mattarella, e che oggi si debba essere così polarizzati? Dobbiamo aiutare a scommettere in positivo».

Eppure va riconosciuto che Meloni partiva da una proposta sul presidenzialismo che, dopo l’incontro con le opposizioni, è stata smussata fino ad arrivare al premierato. Il centrosinistra si sarebbe dovuto mostrare più dialogante o la maggioranza è stata troppo timida nell’aprire agli altri partiti?
«C’era un’elaborazione storica sul premierato che faceva riferimento al testo Salvi per il centrosinistra alla Bicamerale D’Alema, alle audizioni dei professori Barbera e Cheli, e che era nata in Parlamento. Qui invece Meloni è partita da un progetto unilaterale del governo, un grave peccato originale, e – dovendo confrontarsi con spinte divaricanti della sua maggioranza – ha presentato un progetto che non teneva conto di quelle elaborazioni».

Anche perché lo scontro può portare a una serie di storture del testo. Vede passaggi scritti male o incoerenze di fondo nella riforma?
«In particolare, stante le divaricazioni interne, sono ancora oscure le maggioranze: il premier si elegge a maggioranza relativa o assoluta, si vuole garantire una maggioranza in seggi alla Camera e al Senato (tenendone assurdamente due Camere con rapporto fiduciario), c’è o no una soglia in voti per farle scattare? Cosa succede se non si raggiunge? Si svolge o no un ballottaggio? Tutti aspetti cardine che non possono e non debbono essere rinviati alla legge elettorale. Hanno bisogno di una copertura costituzionale».

Anomalie di questo tipo potrebbero essere risolte con una discussione tra maggioranza e opposizione. Ma c’è volontà da una parte e dall’altra?
«Il nostro obiettivo (quello delle iniziative che abbiamo assunto con Libertà Eguale, Magna Carta, Riformismo e Libertà, Io Cambio) non è stato e non è quello di un generico invito al volemose bene, ma pone due quesiti chiave. Alla maggioranza: vi accorgete che il vostro testo non è difendibile? Ai gruppi di opposizione: è possibile che si azzeri la memoria di quello che è stato il movimento referendario, la tesi 1 dell’Ulivo, il testo Salvi alla Bicamerale e che non si affermi in positivo che un’altra riforma è possibile? Altrimenti che senso avrebbe il Pd, partito che affida alle primarie aperte la scelta del suo segretario? Perché è anche il candidato Presidente del Consiglio in un sistema che, con le debite garanzie, si vuole affidare agli elettori…».

È sempre difficile orientarsi tra gli slogan e le logiche di parte, soprattutto sul ruolo del presidente della Repubblica: verrebbe svilito o la sua funzione sarebbe salvaguardata?
«Nelle critiche sul presidente della Repubblica c’è senz’altro una parte di verità. In particolare sull’esigenza di cambiare metodo di elezione, alzando il quorum e ampliando il collegio a sindaci e a parlamentari eletti in Europa, per evitare che sia appiattito sulla maggioranza pro tempore, come presupposto per consentirgli di usare quindi pienamente i poteri di garanzia. Per il resto bisogna stare attenti ai dettagli: che in linea di massima un modello di premierato riduca alcuni poteri politicamente sensibili è una cosa logica, a inizio legislatura è l’elettore chiamato a scegliere il governo e nei sistemi parlamentari il potere di indire elezioni anticipate è più spostato sul premier».

La cosiddetta norma «anti-ribaltone» garantirebbe stabilità politica oppure è solo un espediente comunicativo per convincere gli elettori?
«Bisogna stare attenti a non esagerare con le rigidità: in mezzo alla legislatura può anche essere opportuno un cambiamento e l’esclusione a priori di premier tecnici graditi a chi ha vinto le elezioni (come è obiettivamente accaduto con Monti e Draghi). Non lo precluderei al Quirinale come accade con la norma “anti-ribaltone”. Anche qualche automatismo, come quello tra sfiducia parlamentare ed elezioni, appare sproporzionato. Esistono varie soluzioni nei dosaggi su fiducia, sfiducia, scioglimento tra Germania, Spagna e Svezia, tutte democratiche e sperimentate, che andrebbero considerate nei pro e nei contro. Come si faceva ai tempi della Bicamerale D’Alema col testo Salvi e le audizioni Barbera e Cheli: tutto materiale da ristudiare e da cui ripartire».

Quali scenari si aprono sul fronte della legge elettorale? È il vero grande assente nella discussione…
«La legge elettorale deve avere un chiaro orientamento maggioritario, meglio attraverso i collegi uninominali piuttosto che i premi. Dentro i vincoli di sistema già segnalati dalla Corte costituzionale, ma alcuni nodi devono già essere sciolti dentro il testo di revisione costituzionale».

L’iter in Parlamento è pieno di ostacoli e insidie: i tempi si preannunciano lunghi.
«I tempi devono essere lunghi, non solo per necessità ma anche per scelta. È possibile che la maggioranza voglia applicare il monocameralismo alternato anche alla riforma costituzionale, per di più con un testo così confuso? Forse varrebbe la pena di ripartire proprio dal testo Salvi della Bicamerale D’Alema per cambiare fase, riconoscendo che non si parte mai da zero. C’è tempo fino al 2027, prendiamo tutto quello che è necessario».

A questo punto si va sempre più verso il referendum. Chissà se Meloni accelererà per il voto o aspetterà le prossime elezioni politiche nel 2027, magari dialogando direttamente con Elly Schlein…
«Nelle dinamiche reali sta tornando una spinta bipolare, le elezioni europee sembrano aver risolto in radice il dubbio su quale debba essere la forza guida di ognuno dei due poli. Ma se è così, le leadership dovrebbero spendere la loro forza per una trattativa vera che preservi il bene comune delle regole dallo scontro bipolare. Se invece si trasferisce lo scontro anche sulle regole, questo non farebbe bene a nessuno: quelle attuali sono comunque viste come datate e prima o poi le esigenze di riforma rinascerebbero; se fossero approvate le nuove in un clima di scontro sarebbe difficilissimo gestirle. Pensiamoci finché siamo in tempo. Si facevano riforme condivise sia quando c’era la Guerra Fredda sia al massimo dello scontro tra berlusconiani e anti-berlusconiani (ad esempio l’elezione diretta dei presidenti di Regione nel 1999). Perché dovrebbe essere impossibile oggi?».